MEMORIE DEL PASSATO DEL MIO PAESE NATIO

.................................................Particolare del portale di Santa Sabina.........................

                                                                                               Ad ELISA, che non c’è più,
                                                                                               nel dolce ricordo
                                                                                               dei 65 anni
                                                                                               vissuti insieme. 

 

Prefazione

“Da quanto ho appreso da ragazzo, due fatti del nostro passato mi sono rimasti impressi per tutta la vita e voglio qui raccontarli con la speranza che essi non saranno mai cancellati dalla memoria dei Sambenedettesi.”
Quando pronuncia queste parole Andrea è un uomo maturo, di 50 anni, e si trova in casa dell’economo-curato di San Benedetto, don Angelo Maria, insieme a Ninuccio, suo compare di San Giovanni.
E’ il 1788, un anno molto importante per la storia del nostro paese: potremmo chiamarlo l’anno del risveglio.
San Benedetto non è più quel piccolo gruppo di gente abbandonata a se stessa che ha assistito impotente allo scempio che è stato operato nella Cattedrale di Santa Sabina, negli antichi monumenti e nei semidistrutti edifici privati.
Ora San Benedetto è una comunità di 400 persone consapevole di essere stata privata di alcuni diritti, diritti dei grandi e diritti dei bambini.
Primo frutto del risveglio la costruzione del battistero nell’interno della Chiesa Benedettina.
Con il rientro nella terra di origine di alcuni discendenti dei migranti del 1580 si ripopolano i due quartieri della Cittadella e delle Pagliarelle.
Come capita spesso e ovunque, basta un nonnulla per creare rivalità tra i quartieri, rivalità che non risparmia i due quartieri di San Benedetto subito dopo la costruzione del battistero.
Oggetto del contendere l’ubicazione della Chiesa Benedettina.
Don Angelo Maria è molto preoccupato per la frattura che si sta verificando tra gli abitanti del villaggio e convoca in ”canonica” Andrea e Ninuccio, ritenuti i capi dei due opposti schieramenti.
Bisogna trovare il modo di far tornare la concordia e la pace.
L’incontro dei tre è anche l’occasione per un tuffo nel passato, lontano e vicino, nel ricordo di pagine belle e pagine tristi della nostra storia.
Dal ricordo di quelle pagine nascono, da parte dei tre, commosse espressioni di amore per il loro paese di nascita.
In questo opuscolo quelle pagine belle e tristi della nostra storia le sottopongo all’attenzione dei miei compaesani, con la speranza che la conoscenza delle stesse possa suscitare in noi tutti “espressioni di amore” per il nostro paese.
San Benedetto, oggi, dell’amore dei suoi abitanti ha molto bisogno.                                                                 

                                                                              Sebastiano Simboli

Avezzano, agosto 2010

*********** PARTE PRIMA ************

UNA STORIA QUASI DIMENTICATA

 

 

 

Capitolo 1 : COMPARI DI SAN GIOVANNI

E’ una fredda e piovosa giornata autunnale dell’anno 1799 nel villaggio di S. Benedetto, o Villa Sancti Benedicti, come era denominata da due secoli, nei documenti ufficiali, quella che era stata, più di duemila anni prima, la città di Marruvium, capitale dei Marsi, e di seguito la Civitas Valeria, sede della Diocesi dei Marsi fino al 1° gennaio 1580.
Nella locale Chiesa Benedettina si sta celebrando il funerale di Andrea.
Tutti notano la mancata partecipazione alla cerimonia di Ninuccio. A causare quella assenza doveva esserci un motivo molto serio.
A Ninuccio, gravemente malato, le figlie Celeste e Nunzia avevano tenuta nascosta la notizia della morte del compare.
Non passano, però, neanche cinque giorni e i due compari si ritrovano seppelliti l’uno accanto all’altro: la morte li aveva voluti subito insieme anche nel viaggio verso il Mondo dei Più.
Andrea e Ninuccio non avevano neppure dodici anni quando il 24 giugno 1750, festa di S. Giovanni Battista, si erano recati sulla battigia del lago Fucino e avevano bagnato la loro mano destra nelle limpide acque del lago, poggiandola così bagnata l’uno sulla fronte dell’altro.
In mancanza di fiori più nobili, essi si erano scambiati due umili papaveri, così rossi che quel colore sarà sempre ricordato come segno di intenso reciproco affetto.
Con quei gesti Andrea e Ninuccio erano diventati compari, compari di S. Giovanni, come si usava dire, per distinguere questo da altri tipo di comparatico.
I compari di S.  Giovanni dovevano portarsi rispetto per tutta la vita e aiutarsi reciprocamente in caso di bisogno.
Il reciproco rispetto e l’aiuto nel bisogno coinvolgevano anche le famiglie dei due nuovi compari di S. Giovanni.
Andrea apparteneva ad una famiglia di pescatori e i pesci più pregiati di ogni pescata erano per la famiglia del compare Ninuccio.
Ninuccio faceva parte di una famiglia di contadini, che coltivava non solo un grosso appezzamento di terreno di proprietà a ridosso del fiume Giovenco, ma anche una delle cosiddette “Dieci lenze dei Canonici” presa in affitto.
Le “Lenze dei Canonici” (fig. 1 in Appendice) erano dieci piccoli appezzamenti di terreno, della stessa estensione, situati tra il Molino di Civita e il lago Fucino.   Esse erano di pertinenza dei dieci Canonici della Cattedrale della Diocesi dei Marsi. I Canonici le facevano coltivare da propri parenti o, in mancanza di questi, da affittuari. Si trattava di terreni molto fertili, anche per la continua disponibilità di acqua per l’irrigazione.
Il fiume Giovenco, oltrepassato l’abitato di Pescina, si biforcava in tre rami, delimitando una vasta zona a forma di delta, cioè a configurazione triangolare. (Fig. 2 in Appendice)
Il fiume Giovenco, perciò, portava le sue acque nel lago Fucino in tre punti diversi.
Le acque di uno di questi rami del fiume facevano girare la mola del Molino di Civita, uscendo da questo spumose e veloci proprio davanti alle “Lenze dei Canonici”.
La famiglia di Ninuccio coltivava in affitto da anni la “Lenza” numero cinque di pertinenza del Canonico don Firmino. Una coltivazione esclusiva ad ortaggi, molto ammirata da quelli che da Collelongo, da Trasacco, da Luco e da altri paesi della zona venivano a macinare nel Molino di Civita.
Superfluo dire che le primizie di quegli ortaggi erano per la famiglia del compare Andrea.
Le famiglie dei due compari erano molto stimate e ammirate da tutti i quattrocento abitanti del villaggio.
Il vecchio economo-curato don Angelo Maria era solito dire: ”Quanto sarebbe più bello e più buono il mondo se ci fossero più compari di S. Giovanni!”

Capitolo 2 : UNA STORIA QUASI DIMENTICATA

Eppure toccò proprio a don Angelo Maria essere arbitro in una difficile e delicata questione che vedeva i due compari Andrea e Ninuccio a capo di due opposti schieramenti.
E’ vero che si tratta di una storia di vita paesana, anzi di quartiere, ma è pur sempre una storia che non può e non deve essere dimenticata.
Quella storia, in verità, non recepita dalla coscienza collettiva, è stata cancellata quasi del tutto dalla memoria dei Sambenedettesi.
La Storia, si sa, è anche luce di verità. La luce a volte è più luminosa del solito e lascia qua e là degli sprazzi. Se siamo fortunati nel ricercare e nel mettere insieme quegli sprazzi, ecco che quella particolare storia, dimenticata e cancellata dal ricordo, torna ad essere, oltre che luce di verità, anche testimonianza del tempo e vita della memoria.
E’ come quando ci scappa dalle mani un bel vaso di ceramica, che, cadendo a terra, si frantuma in tanti cocci; se siamo bravi nel rimettere insieme, al proprio posto, ogni pezzo, ecco che il vaso riprende la sua forma originaria, pur se con qualche …. cicatrice.
Dicevamo che si tratta di una storia di vita paesana, anzi di quartiere, e proprio dal quartiere dobbiamo partire nel raccontare la storia di Andrea e Ninuccio, compari di S. Giovanni.

Capitolo 3 : COME E DOVE E' NATA QUELLA STORIA

E’ storicamente documentato che San Benedetto il 4 maggio 1738 contava 142 abitanti (102 adulti e 40 tra ragazzi e bambini).
Nella seconda metà del Settecento si registra una prodigiosa crescita di abitanti: stanno tornando nella terra di origine alcuni discendenti di coloro che, nel periodo della traslazione della sede vescovile, nel 1580, avevano abbandonato, con il vescovo Matteo Colli, la semidistrutta città di Valeria e si erano trasferiti a Pescina e a Venere.  
Negli ultimi decenni del Settecento gli abitanti di San Benedetto sono più di 400.
Si ripopolano così quelli che erano stati i due più vecchi quartieri dell’antica città e che noi conosciamo con i nomi di Cittadella (in dialetto “ la Citatelle”) e di Pagliarelle (in dialetto “i Pajjarejje”).
I 400 abitanti sono equamente distribuiti nei due quartieri.
Nella Cittadella prevalgono le famiglie dei pescatori, nel quartiere delle Pagliarelle sono in maggior numero le famiglie dei contadini e dei pastori.
Non è, però, solo questo che distingue gli abitanti dei due quartieri.
Osserviamoli e ascoltiamoli mentre parlano.
Nella Cittadella le pecore sono dette “pèquere” e la terra è detta “tèrre”; nel quartiere delle Pagliarelle le pecore sono dette “pàquere” e la terra è detta “tàrre”. Proviamo a pronunciarle noi quelle parole, tenendo presente che la vocale “e” atona, senza accento, nel dialetto sambenedettese non si pronuncia. La parola “pèquere” ci scappa veloce dalla bocca, mentre per pronunciare la parola “pàquere” occorre fare quasi uno sforzo.
Si dice che le parole sono la voce dell’anima.
Ad ascoltarla attentamente, quella voce ci proietta, come riflesse in uno specchio, immagini che suscitano sensazioni, permettendoci così di entrare, di penetrare in quel piccolo mondo, in quel microcosmo che è ogni uomo.
Più semplicemente, parafrasando un noto proverbio, potremmo dire: “Fammi ascoltare la tua voce e capirò chi sei”.
Ascoltiamola la voce dei nostri antenati di oltre due secoli fa: i pescatori ci appaiono come gente sveglia, dinamica, abituata a guardare lontano. I pescatori non possono distrarsi, perché l’acqua, in concomitanza di altri fenomeni naturali, a volte tradisce: occorre, perciò, stare molto attenti, pronti a fronteggiare qualsiasi evenienza.
I contadini sono gente più pacata, più riflessiva, con i piedi per terra: terra così spesso bagnata dal sudore della loro fronte. I contadini sono abituati a guardare in alto, nel cielo, a scrutare se quella lontana nuvoletta possa essere foriera di pioggia per i riarsi terreni o a scongiurare che quei nuvoloni neri non portino grandine o furiosi temporali che distruggono i raccolti.
Quello che, però, accomuna i 400 abitanti di San Benedetto è l’amore per il loro paese: amore intenso dei discendenti di coloro che, due secoli prima, non vollero abbandonare il luogo natio, amore nostalgico dei discendenti di quelli che nello stesso periodo furono costretti ad emigrare.
Ora San Benedetto non è più quel piccolo gruppo di gente, abbandonata a se stessa, che assiste impotente allo scempio che si sta operando nella Cattedrale di Santa Sabina, negli antichi monumenti, nei semidistrutti edifici privati.
Ora San Benedetto non è più “l’insignificante tugurio di pescatori, contenente appena dieci famiglie”, come aveva scritto più di un secolo prima lo storico marsicano Muzio Febonio.
Ora i Sambenedettesi sono una comunità, non ancora del tutto coesa, ma consapevole di essere stata privata di alcuni diritti: diritti dei grandi e diritti dei bambini.
E’ l’anno 1788. Da due secoli i bambini che nascono nel villaggio di San Benedetto, per essere battezzati, devono essere portati a Pescina, nella Cattedrale di Santa Maria delle Grazie, di cui sono parrocchiani.
Ora i Sambenedettesi (o Sambenedettini, come allora venivano chiamati) si domandano: “Perché i nostri bambini, per diventare cristiani, devono essere sottoposti ad un rischioso viaggio di 10 km su una strada dissestata e questo anche durante il nevoso inverno o nella calura estiva?”
Bisogna porre termine a questo stato di cose, bisogna assicurare ai bambini di San Benedetto il diritto di essere battezzati nel loro paese natio.
Si costituisce così un Comitato, di cui sono parte attiva i nostri due compari di San Giovanni Ninuccio e Andrea.
Per la storia questo è il primo dei tanti Comitati (l’ultimo sarà quello del 1944-’45) che accompagneranno il lungo cammino della lotta di San Benedetto per l’autonomia da Pescina.
Dal Comitato una “supplica” al vescovo dei Marsi Francesco Vincenzino Lajezza, perché autorizzi i Sambenedettesi a costruire, a proprie spese, nell’interno della locale Chiesa Benedettina, il battistero, per permettere ai bambini di San Benedetto di essere battezzati nel luogo dove sono nati.
Il vescovo Lajezza ritiene giuste le richieste dei Sambenedettesi e dà il suo benestare con decreto del 1° aprile 1788.
Poter battezzare i bambini di San Benedetto nel loro paese natio è la prima conquista di autonomia da Pescina, di modesta entità, se vogliamo considerarla tale, ma, a ben guardare, così piena di significato.
Ed eccoci, proprio in questo contesto storico, alla vicenda di vita paesana, anzi di quartiere, che vede coinvolti, a capo di due opposti schieramenti, i due compari di San Giovanni Andrea e Ninuccio.
Storia di quartiere, abbiamo detto.
Con la parola “Quartiere”, in origine, si indicava una delle quattro parti di una città formate dall’incrocio di due strade presso il centro cittadino.
Con il passare del tempo la parola Quartiere perde il suo significato di quarta parte, ma assume quello di uno spazio limitato, di porzione, grande o piccola che sia, di una città, di un paese. Così si può parlare di quartiere anche quando gli “spazi limitati” sono di più o di meno di quattro.   
L’antico quartiere “quarta parte” nasce da esigenze strategiche, che riguardano solo marginalmente gli abitanti. Il quartiere “spazio limitato” nasce, invece, dalla necessità di assicurare agli abitanti una migliore e più tempestiva erogazione dei servizi, dalla salvaguardia di usi e costumi radicati nella zona, dalla valorizzazione di monumenti e opere presenti nel quartiere e da altro ancora.
Tutto questo, però, ha anche un aspetto negativo.
Ogni quartiere ha la convinzione di avere qualche cosa in più degli altri, ha la pretesa di essere il vero e unico rappresentante della comunità. In quanto ai difetti, giacché tutti gli uomini ne hanno, vale la massima evangelica: “E’ più facile notare una pagliuzza nell’occhio del vicino che non una trave nel proprio”.
Da qui le rivalità che a volte sfociano nelle cosiddette “lotte di quartiere”.
Ed ora vediamo che cosa sta succedendo nei due quartieri del piccolo villaggio di San Benedetto dopo la bella conquista del 1788.
Ora i bambini di San Benedetto possono essere battezzati nel luogo dove sono nati, ma la Chiesa Benedettina è nel quartiere della Cittadella o nel quartiere delle Pagliarelle?
Noi oggi quella domanda non ce la porremmo nemmeno, ma più di due secoli fa la chiesa era un prezioso punto di riferimento per gli abitanti, l’unico e necessario luogo di aggregazione. Era squallido il quartiere che non aveva una propria chiesa, un proprio campanile, una propria campana, i cui rintocchi hanno sempre accompagnato e sempre accompagneranno le ore liete e le ore tristi della vita di ogni uomo.
Si spiega così perché i 400 abitanti di San Benedetto rivendicassero, ognuno per il proprio quartiere, l’ubicazione della Chiesa, del Convento Benedettino e di tutte le attività che intorno ad esso si svolgevano: coltivazione di vigneti, di frutteti, di oliveti, scuole artigianali.
Per renderci adeguatamente conto del luogo di cui stiamo parlando, esso corrisponde, grosso modo, alla zona di forma rettangolare delimitata dalle attuali strade Via Capocroce, Via Valeria, Via Fucino e Via Armando Diaz. Erano terreni appartenenti alla famiglia del nostro papa San Bonifacio IV e che il Pontefice aveva donato ai Benedettini, perché vi costruissero una Chiesa e un Convento.
Nasce allora una certa bonaria rivalità tra gli abitanti dei due quartieri.
Ancora oggi, a distanza di oltre due secoli, con l’accresciuta popolazione proveniente da ogni parte dell’Abruzzo dopo il prosciugamento del lago Fucino e ancora con la distruzione dell’oggetto stesso del contendere (la Chiesa Benedettina), la rivalità non è del tutto scomparsa, non perdendo mai, però, il suo aspetto bonario.
Gli abitanti dei due quartieri hanno buone e convincenti ragioni a sostegno delle loro rivendicazioni. Così il villaggio si divide in due opposti schieramenti.
I compari Andrea e Ninuccio, abitante il primo nel quartiere della Cittadella e il secondo nel quartiere delle Pagliarelle, vengono a trovarsi rivali: rivalità, beninteso, non voluta né dettata da interessi personali. I due compari non possono non essere solidali con i propri vicini di casa
La frattura che sta verificandosi tra gli abitanti del piccolo villaggio preoccupa molto il vecchio don Angelo Maria.
Sono veramente buone e convincenti le ragioni addotte dai contendenti per le loro rivendicazioni? Don Angelo Maria vuole conoscerle dalla viva voce di Andrea e di Ninuccio e si propone come arbitro, perché torni la concordia nel suo amato piccolo villaggio.
Quella storia, ben conosciuta nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, finì per svanire quasi del tutto nel ricordo dopo il terremoto del 13 gennaio 1915. Erano stati spazzati via tutti gli oggetti del contendere: chiesa, campanile, campana, convento.

Capitolo 4 : COME FAR RIVIVERE UNA STORIA QUASI DIMENTICATA TRA ANTICHI RICORDI E LUOGHI DEL PRESENTE.

Anche noi oggi vorremmo conoscere quella storia, ma non ci sono carte dove leggerla.
La Storia, però, non è mai muta, anzi sa parlare a noi con più voci: voci a volte ben distinte e comprensibili, voci a volte flebili e appena percettibili.
La Storia ci parla con tutto quello che è intorno a noi: occorre, però, saper cercare, osservare, ascoltare, capire e mettere insieme.
Ed è quello che vogliamo tentare di fare anche noi, nei luoghi delle antiche vicende, alla ricerca di quegli sprazzi che la Storia, quale luce di verità, lascia qua e là.
E’ una limpida notte di plenilunio. Sono finalmente cessati gli assordanti rumori di automobili, di autotreni e di motociclette.
Eccomi al centro del quadrivio da cui si dipartono quattro delle più belle strade di San Benedetto: Via Civita, Corso Vittorio Veneto, Via Armando Diaz e Via Capocroce. (Fig. 3 e fig. 4 in Appendice)
Da Via Capocroce scendo in direzione dell’alveo del lago Fucino. Dopo non molti passi una brutta e pericolosa curva. Mi fermo. A sinistra, proprio all’inizio della curva, una stradina e su un vecchio muro una scritta: “Via dei Sacerdoti” ( Fig. 5 e fig. 6 in Appendice). Capiremo più avanti il perché di quel nome.
Oltre a Via Civita e a Via Romana, dunque, anche Via Capocroce ha la sua “porta d’ingresso” nel quartiere delle Pagliarelle.
Ricordo di aver varcato per la prima volta quella “porta” molti anni fa quando mi recai in casa di un mio compagno di scuola elementare di nome Mario.
Ora al ricordo del passato si aggiunge la curiosità di un confronto col presente.
Da alunno delle elementari mi colpì il fatto che nell’interno del quartiere non c’era posto per i giochi dei ragazzi. Ora come sarà?
Senza indugiare ulteriormente entro, attraverso la Via dei Sacerdoti, nel quartiere delle Pagliarelle.
Qui il silenzio della notte è più profondo: è assoluta assenza di rumori.
Non ci sono insegne luminose, non ci sono vetrine illuminate. Tutto è reso visibile dalla soffusa luce della luna piena.
Ho la netta sensazione che qui il tempo presente non è soltanto frutto del passato, ma è il passato stesso. Sembra che qui il tempo si sia fermato, per permettere anche a noi oggi di cercare e di ascoltare le flebili voci di una storia cancellata dalla memoria.
Perché quelle voci diventino per me più comprensibili, arrivato all’incrocio di Via Civita, non esco dal quartiere, ma torno indietro sui miei passi, fino alla brutta curva di Via Capocroce.
Oltrepassata la curva, ecco davanti a me tre possibilità per continuare la mia passeggiata notturna: a destra l’ampio spazio dove sorgevano la Chiesa e il Convento Benedettini; a sinistra una lunga strada, tornata dritta, verso l’alveo del lago; al centro, quasi proseguimento della Via dei Sacerdoti, una stradina e su un muro una targa particolare con scritto “Vicoletto della Chiesa” (Fig. 7 e fig. 8 in Appendice). Già la parola vicolo ci dà l’idea di una strada corta e stretta, ma quel diminutivo vi aggiunge qualcosa di bello, di grazioso.
A me piace tanto quella stradina con quel nome, la conosco bene. L’ho percorsa molte volte, di giorno, di sera, sempre in solitudine, senza incontrare qualcuno con cui scambiare un saluto di buon giorno o di buona sera. Forse le poche persone che vi abitano sono costrette ad una vita casalinga.
Anche qui il silenzio della notte è profondo: c’è assoluta mancanza di rumori.
Ben diversa era, però, la situazione nel tempo della nostra storia: era una stradina piena di vita, percorsa dagli abitanti della Cittadella quando dovevano recarsi nella Chiesa Benedettina o nella parte alta del villaggio.
Esco dal vicoletto e raggiungo Via Valeria, la bella strada che oggi divide in due parti uguali il grosso quartiere della Cittadella.
Ecco a sinistra un’altra strada importante della nostra storia: Via dei Benedettini (fig. 9 e fig. 10 in Appendice).
Il nome di questa via ci fa ricordare innanzitutto la presenza nel nostro paese, per molti secoli, dei monaci benedettini.
La Civitas Valeria sarà il principale centro religioso della Marsica, non solo perché sede della Diocesi dei Marsi nella Cattedrale di Santa Sabina, ma anche per il suo Monastero Benedettino.
Tra le disposizioni contenute nella Regola data da San Benedetto Abate ai suoi monaci c’è quella famosa di “Ora et labora”, cioè “Prega e lavora”.
Mi piace immaginare i monaci non solo quando pregano in coro o in solitudine, ma anche quando svolgono ogni tipo di lavoro: lavoro intellettuale, giacché tutti i monasteri benedettini (si pensi a quello di Montecassino) sono centri di alta cultura non esclusivamente religiosa; lavoro manuale, non solo per provvedere ai bisogni materiali della loro comunità.
I monaci erano sempre in prima linea nell’aiutare i nostri antenati a ricostruire le opere e le case danneggiate dalle inondazioni del lago Fucino.
Essi, inoltre, stimolavano, anche con il proprio esempio, al lavoro dei campi, ritenuto anche allora non sempre remunerativo. E ancora, per merito loro, aperture di scuole artigianali di ogni tipo.
Non possiamo, inoltre, dimenticare che dal fondatore dell’Ordine dei Benedettini il nostro amato paese ha preso il suo nome.
Quando c’era il lago Via dei Benedettini era lambita o invasa dalle sue acque; oggi la strada si prolunga fino all’inizio dell’alveo.
E non è finita qui l’importanza storica di Via dei Benedettini. Essa, nel suo tratto finale, nel lato destro, s’incrocia con Via Fosso dei Frati (Fig. 11 e fig. 12 in Appendice).
Il Fosso dei Frati raccoglieva le acque del ramo centrale del fiume Giovenco, che confluivano quindi nel lago Fucino proprio in Via dei Benedettini.
Il nome “Fosso dei Frati” era dato a tutto il corso delle acque del fiume Giovenco dentro l’abitato di San Benedetto ed il “Fosso” era detto “dei Frati” perché, prima della fine del suo percorso, con la riva sinistra lambiva i terreni di proprietà dei monaci benedettini e sulla destra, a pochi passi, c’era la Certosa, un altro luogo sacro di cui diremo più avanti.
Del Fosso dei Frati chi scrive ha un ricordo particolare di quando era ragazzo, scorrendo esso a pochi passi dalla propria abitazione in Via Armando Diaz a fianco della Chiesa Evangelica, allora una baracca di legno (Fig. 13 in Appendice).
D’estate le acque scarseggiavano, ma nelle altre stagioni il “Fosso” era sempre pieno e spesso le sue acque tracimavano qua e là.
In Via Diaz, tra il Fosso dei Frati e Via Fucino, sulla sinistra di chi va verso la parte alta del paese, non c’era allora nessuno degli attuali edifici. Vi era un ampio prato situato ad un livello più basso rispetto a quello della strada.
Le acque che tracimavano dal Fosso dei Frati finivano nel “prato”, formando una specie di laghetto. Queste acque d’inverno ghiacciavano per la gioia di noi ragazzi, che potevamo fare, come si usa dire oggi, pattinaggio su ghiaccio. Beninteso, noi allora non conoscevamo né il verbo pattinare né il nome pattini. Da noi si diceva: “Andiamo a fare ‘la sciuvelarèlle’.“ E di pattini non c’era proprio bisogno: tutti portavamo scarpe con chiodi particolari infissi nelle suole. 
Parlare delle acque del fiume Giovenco, del lago Fucino e del Fosso dei Frati nel contesto della storia che stiamo raccontando può sembrare una digressione, un allontanamento dal nostro tema, ma non è così, perché anche queste acque sono memoria del nostro passato e l’occasione di spendere due parole per ricordarlo non va sciupata.

 

Capitolo 5 : ANCHE LE ACQUE TRA LE MEMORIE DEL NOSTRO PASSATO.

Nel corso dei secoli le acque hanno sempre attirato l’attenzione di scrittori e  di poeti.
Il sommo poeta Dante Alighieri, per indicare il nome della città di Treviso, scrive che essa è il luogo dove “Sile e Cagnan s’accompagna” ( Paradiso – IX, 49), cioè il luogo dove le acque del fiume Cagnan (oggi fiume Botteniga) confluivano e confluiscono ancora nel più grande fiume Sile (Fig. 14 in Appendice).
Anche i nostri antenati avrebbero potuto dire che la loro città era il luogo dove “Fucino e Giovenco s’accompagna”, cioè il luogo dove le acque del fiume Giovenco confluivano nel lago Fucino.
Con una particolarità, però!
Mentre le acque del fiume Cagnan si mescolavano e si mescolano ancora, diventando un tutt’uno, con le acque del fiume Sile, le acque del fiume Giovenco confluivano nel lago Fucino, ma non si mescolavano con le sue.
Forse pochi fiumi e laghi hanno avuto tante citazioni da poeti e da scrittori, come il fiume Giovenco e il lago Fucino.
Il poeta latino Virgilio definisce le acque del lago Fucino “Vitrea unda”, acque come una lastra di vetro, cioè di massima trasparenza e limpidezza.
Se le acque del lago Fucino erano famose per la loro limpidezza e per la trasparenza, le acque del fiume Giovenco lo saranno per la loro leggerezza.
Quelle del Giovenco erano acque così leggere che passavano velocemente sulle acque del lago Fucino senza mescolarsi con esse. Lo hanno scritto il poeta greco Licofrone, gli scrittori romani Plinio il Vecchio e Silio Italico e lo storico greco Strabone.
Vale per tutti quanto ha scritto, in una sua poderosa opera geografica, lo scrittore latino del quarto secolo dopo Cristo Vibio Sequestre: “Pitornius, qui per medium lacum Fucinum Marsorum ita decurrit, ut aquae ejus non misceantur stagno. Forsan Pitonius vel Piconius.” Lo scrittore sta facendo  l’elenco dei fiumi esistenti e scrive: ”Il fiume Pitornio (era così chiamato il Giovenco) che scorre in mezzo al lago Fucino dei Marsi in modo che le sue acque non si mescolano a (quelle del) lago. Forse (viene chiamato anche) Pitonio o Piconio.” (Fig. 15 e fig. 16 in Appendice).
Viene spontaneo un confronto del presente con il tempo passato.
Oggi a San Benedetto c’è ancora la vecchia Via dei Sacerdoti, ma non c’è più l’abitazione dei religiosi addetti alle cure degli abitanti del villaggio.
Oggi a San Benedetto c’è un solo sacerdote e non abita in questa via.
Oggi c’è il grazioso Vicoletto della Chiesa, ma della bella Chiesa Benedettina ci sono rimaste soltanto alcune grosse pietre da custodire gelosamente, perché anche i nostri posteri possano ascoltare le loro flebili voci (Fig. 17 e fig. 18 in Appendice).
C’è la Via dei Benedettini, ma i monaci non ci sono più.
C’è l’antica Via Fosso dei Frati, ma non ci sono più né il fosso né i frati.
C’è la Via della Certosa, ma del luogo sacro non si sa quasi nulla (Fig. 19 e fig. 20 in Appendice).
Qui le pietre non possono farci ascoltare le loro flebili voci o perché portate via chissà dove o perché nascoste troppo in profondità.
Nella Via della Certosa, sul lato destro di chi sale verso Via Valeria, si apre la via più corta di San Benedetto che porta il nome di una piccola regione italiana: Via Molise (Fig. 21 in Appendice).
In questa stradina abita una sola famiglia: è come se stesse lì a custodire un tesoro archeologico nascosto che forse un giorno verrà alla luce.
Il totale prosciugamento del grande lago Fucino è stato ritenuto da alcuni una fonte di ricchezza, dai più un danno irreparabile sotto molti aspetti.
Che cosa dire delle leggere acque del fiume Pitornio?
Il citato scrittore latino Plinio il Vecchio ci ha fatto sapere che le acque del fiume Pitornio, che da noi è chiamato Giovenco, non solo passavano veloci e leggere sulle acque del lago Fucino senza mescolarsi con esse, ma anche che le stesse, oltrepassando il lago, sprofondavano tra dirupi, andando ad alimentare presso Tivoli l’acquedotto romano dell’Acqua Marcia, “tra gli altri un dono degli Dei alla città di Roma”.
Fino ai primi decenni del Novecento le acque del fiume Giovenco erano ancora limpide e trasparenti.
Le ragazze da marito sambenedettesi vi andavano a lavare il loro corredo da sposa per riporlo, quindi, pulito e stirato, negli appositi cassettoni in attesa del grande giorno.
C’era anche chi andava a lavarvi il grano prima di portarlo al mulino.
D’estate, poi, una schiera di ragazzi (e chi scrive era tra essi) si recava quasi giornalmente a fare il bagno alle “cascatelle” del fiume.
Si andava al fiume, per dirla in dialetto, tutti “scàveze, scammisciàte i scappellìtte”, cioè scalzi, senza giacca e senza berretto. Portando al Giovenco scarpe, calze, giacca e berretto, si rischiava di non riportare a casa questi indumenti.
Oggi le acque del Giovenco non sono più né leggere né limpide.
La nostra civiltà del benessere le ha rese scure, inquinate da rifiuti di ogni genere.

 

Capitolo 6 : UN PROBLEMA DA RISOLVERE IN TRE NEL RICORDO DI PAGINE LIETE E PAGINE TRISTI DELLA NOSTRA STORIA.

Torniamo ai due compari che sono arrivati contemporaneamente in casa di don Angelo Maria.
Il vecchio economo-curato li ha accolti con un sorriso, sperando in cuor suo di poter sorridere anche nel licenziarli.
La casa di don Angelo Maria è un modesto, si fa per dire, monolocale.
E’ uno stanzone a piano terra dove c’è e si fa di tutto.
Fa mostra di sé un bel camino con a fianco una discreta catasta di legna.
Sul ripiano di una credenza alcuni libri che don Angelo Maria ama leggere quando è libero da altri impegni.
Su un altro ripiano un boccale del buon vino della vigna dei Benedettini e tre bicchieri: don Angelo Maria spera di poter fare un brindisi per l’accettazione da parte di Andrea e Ninuccio della sua proposta.
Addossata ad una parete una lunga panca e, di fronte a questa, un lungo tavolo.
Fatti accomodare i due compari, don Angelo Maria prende per primo la parola: un lungo discorso che noi dobbiamo ridurre necessariamente all’essenziale.
“Andrea e Ninuccio, voi conoscete il motivo di questo nostro incontro. Io sono ormai molto vecchio e da un giorno all’altro potrei essere chiamato a rendere conto a Dio della mia vita di uomo e, soprattutto, di sacerdote.
Non vorrei che Lassù mi si contestasse l’addebito di non aver fatto tutto il possibile per riportare la concordia nel nostro amato paese.
Per tutta la mia vita di sacerdote non ho mai dimenticato un precetto della nostra religione cristiana molto facile da capire, ma molto difficile da osservare: ‘Essere sempre in pace con tutti’. Non può essere perdonato da Dio chi non sa o non vuole perdonare agli altri.
Quando il 4 maggio 1738 l’economo-curato don Tomasso Sclocchi contò gli abitanti di San Benedetto (102 adulti e 40 tra ragazzi e bambini) io ero uno di quei ragazzi.
Ricordo molto bene quel periodo: sembrava che tutti i 142 abitanti di San Benedetto formassero una sola famiglia.
Noi ragazzi chiamavamo con il nome di “zio” e “zia” ogni persona adulta, prescindendo dal fatto che il più delle volte non c’era rapporto di parentela.
La nostra gioia più grande era quando vedevamo le bianche vele quadre delle barche che si avvicinavano lentamente. Tutti di corsa verso la riva del lago per assistere al rientro dei pescatori.
Da allora sono passati 50 anni. Ho visto il mio paese crescere di abitanti fino agli attuali 400.
La caratteristica di paese come se fosse una sola famiglia non è mai venuta meno.
A dire il vero certi dissapori non sono mancati, ma questo più nell’interno di una stessa famiglia che non di una famiglia contro l’altra.”
Dicendo questo don Angelo Maria si riferisce ad un clamoroso episodio capitato ad Andrea qualche anno prima e di cui noi dobbiamo necessariamente occuparci più avanti.
Andrea capisce e, come suol dirsi, accusa il colpo, ponendo lo sguardo al boccale e ai tre bicchieri posti sul ripiano della credenza.
E lo capisce anche il compare Ninuccio.
Senza interrompersi, don Angelo Maria continua: “Fino a poco tempo fa io ero molto felice nel constatare che regnavano la pace e la concordia fra tutti gli abitanti di San Benedetto.
A dire il vero c’era qualche cosa che li divideva e li divide ancora e chissà quanto tempo ci vorrà prima che la divisione scompaia.
Quel qualcosa sono le benedette pecore o ‘péquere’, come le chiami tu Andrea, o ‘pàquere’, come dice il qui presente tuo compare Ninuccio.”
Nel pronunciare la parola ‘pàquere’, don Angelo Maria non può trattenere un sorrisetto che contagia anche Andrea.
Ninuccio, che di ‘pàquere’ ne ha cinque nella stalla, facendo, come suol dirsi, buon viso a cattivo gioco, abbozza un non troppo convinto mezzo sorriso. 
Ancora don Angelo Maria: “Dopo la costruzione del Battistero pare che la concordia sia scomparsa dal nostro paese. Questo mi dispiace molto e mi dispiace ancora di più il fatto che l’oggetto del vostro contendere sia la chiesa. Nessuno può dirsi proprietario di una chiesa, perché essa è la casa di tutti, specialmente di quelli che vi si recano a pregare.
Voi siete ritenuti capi di due opposti schieramenti ed io vi ho qui convocati perché mi facciate conoscere le vostre ragioni e mi aiutate a trovare una soluzione che ponga fine alla discordia.
A voi due, perciò, la parola.”
Il più interessato a vuotare subito il sacco sembra essere Ninuccio.
Andrea è ancora troppo assorto a ricordare quell’episodio di vita familiare dell’anno 1785, appena tre anni prima, a cui don Angelo Maria ha fatto riferimento.
“Caro don Angelo – esordisce Ninuccio – io non mi sento di essere un capo e per di più rivale di un altro capo, Andrea. I nostri sempre buoni rapporti di compari di San Giovanni, iniziati nell’ormai lontano 24 giugno 1750 e durati inalterati per tutta la nostra vita, lo stanno a dimostrare. Non ci sarà mai un compare Ninuccio contro il compare Andrea e viceversa.
Sono d’accordo nel dover tentare ogni mezzo e fare ogni sforzo perché la pace e la concordia tornino nel nostro piccolo villaggio.
Detto questo, potrei chiudere il mio intervento.
Penso, però, che ciò non piaccia né a te, don Angelo, né ai 200 abitanti del mio quartiere che sanno di questo nostro incontro.
Da questo momento, perciò, mi tolgo le vesti di ‘capo’ e indosso quelle di portavoce dei Pagliarellesi.”
Ninuccio tira fuori dalla bocca la parola ‘Pagliarellesi’ con una certa difficoltà, quasi sillabando.
Quella parola non ha avuto fortuna, perché non è riuscita a sostituire una espressione dialettale che ai Sambenedettesi sembra piacere molto. Per indicare gli abitanti del quartiere delle Pagliarelle ancora oggi si usa dire “Quisse d’i Pajjaréjje”.
Ninuccio intanto, ripreso fiato, può così continuare: “Nel 1580, quando il vescovo Matteo Colli, i Canonici della Cattedrale di Santa Sabina e quasi tutta la popolazione lasciarono la semidistrutta città di Valeria, un gruppo di irriducibili non volle abbandonare il luogo natio. In tutto alcune decine di famiglie.
Abbandonati a se stessi, quei nostri antenati trovarono, tutti insieme, una sistemazione provvisoria intorno alla Chiesa e al Convento Benedettini.

Quando nel 1587 fu mandato dalla Curia di Pescina a servire nella Cattedrale di Santa Sabina, il frate francescano fra Geronimo da Goriano trovò che quelle famiglie si erano trasferite al centro del nostro quartiere, non lontano dal Molino di Civita.
Si trattava della parte alta della semidistrutta città e la meno danneggiata, non avendo mai subito i danni delle inondazioni del lago Fucino.
Io, i miei amici, lo stesso compare Andrea, ci siamo spesso domandati: sarebbe nato il nostro paese sulle rovine di Valeria se non ci fossero state quelle poche famiglie di coraggiosi che, sfidando disagi di ogni genere, nel 1580 non abbandonarono il luogo natio?
Certamente no!
Oggi qui ci sarebbero ancora ladri di pietre e una città morta.
Caro don Angelo, i Sambenedettesi non dovranno mai dimenticare che il nostro paese è nato intorno a quei luoghi sacri benedettini e ha cominciato a crescere dove ora ci sono le nostre case, in quello che circa due secoli dopo sarà chiamato ‘quartiere delle Pagliarelle’ a causa della costruzione di magazzini, stalle e anche case con blocchetti di creta e paglia, data la scarsa disponibilità di pietre.
Per finire, io Giovanninuccio non ho proposte da fare, ma, quale portavoce, non posso non riferire quello che si mormora tra i Pagliarellesi: se è vero che le acque di alcuni fiumi segnano i confini di due regioni, di due città, di due paesi, le acque del fiume Giovenco, che scorrono nel Fosso dei Frati, non potrebbero segnare i confini tra i nostri due quartieri?”
E Ninuccio, a conclusione: ”Sempre che questo serva a far ritornare la pace e la concordia nel nostro amato villaggio.”
Don Angelo Maria e Andrea ascoltano attentamente le parole di Ninuccio e si commuovono all’accorato appello perché i Sambenedettesi non dimentichino mai che il loro paese è nato dal sacrificio di pochi coraggiosi.
E poi quell’accenno finale alla pace e alla concordia!
Riepilogando, nel suo intervento Ninuccio ha fissato i seguenti cinque punti:
1) non sono un capo rivale di un altro capo;
2) desidero il ritorno della concordia e della pace nel mio amato paese;
3) non ho proposte da fare;
4) San Benedetto è nato nel 1580 dal sacrificio di pochi coraggiosi e i Sambenedettesi non dovranno mai dimenticarlo;
5) circa i confini dei due quartieri mi sono limitato a riferire quello che si dice tra i Pagliarellesi.
L’economo-curato mentalmente approva i primi quattro punti della relazione di Ninuccio, ma il quinto sul confine dei due quartieri sembra complicargli un punto fondamentale della sua proposta, che egli, quale arbitro, deve pur fare.
E poi, perché Ninuccio non ha espresso la sua opinione personale sul confine lungo il Fosso dei Frati?
Facile, anche per noi, rispondere all’interrogativo: Ninuccio la pensava come i suoi vicini di casa.
Don Angelo Maria tiene ancora per sé la sua risposta, perché ora la parola deve prenderla Andrea, che finalmente può così esordire: “Caro don Angelo, io ho sempre ammirato il compare Ninuccio per la sua saggezza; da questo momento lo invidio anche per le belle parole che ha saputo dire del nostro amato villaggio.
Don Angelo, tu ci conosci bene e più volte ti abbiamo sentito additarci a tutti i Sambenedettesi come appartenenti a famiglie esemplari. Noi non vogliamo deluderti e insieme a te troveremo il modo di far tornare la pace e la concordia.
Anch’io, come il compare Ninuccio, non mi sento di essere un capo, anch’io voglio il ritorno della pace e della concordia, anch’io non ho proposte da fare.
A te, però, tutto questo non basta, tu da me vuoi sapere ben altro.”
Dopo aver detto “ben altro”, Andrea sente il bisogno di una breve pausa. La “scaletta” del suo intervento, preparata con cura, andava, almeno in parte, modificata.
Andrea deve pur dare una risposta a quanto sostenuto da Ninuccio nella sua esposizione al punto quattro (il paese di San Benedetto è nato nei luoghi benedettini nel 1580 ed è cresciuto nel quartiere delle Pagliarelle) e al punto cinque (proposta di fissare il confine dei due quartieri lungo il “Fosso dei Frati”).
L’intervento di Andrea non si presente facile.
Ninuccio non è uomo di cultura, della storia del suo paese conosce bene solo quella successiva alla traslazione della sede vescovile a Pescina, perché raccontatagli da suo nonno e da suo padre. Conosce, cioè, il periodo più triste della nostra storia,  quello delle sofferenze e delle umiliazioni.
Dotato, però, di quella straordinaria saggezza, propria della gente dei campi, Ninuccio ha saputo parlare, come suol dirsi, con il cuore in mano.
Il suo intervento è stato un atto di amore per il suo paese natio.
Andrea, al contrario, è uomo di una certa cultura: della storia del suo paese conosce quasi tutto.. Nella sua casa non mancano libri, tra cui testi giuridici appartenuti ad un lontano parente che aveva frequentato per alcuni anni l’Università Federico II di Napoli.
Costui, un certo giorno, però, aveva abbandonato Napoli per tornarsene nella terra di origine dei suoi avi tra i pescatori delle valli di Comacchio.
Ma lasciamo nello scaffale quei libri pieni di polvere, ascoltiamo direttamente dalla viva voce di Andrea:
“Compare Ninuccio, come ho già detto a don Angelo, io ti invidio per le belle espressioni che tu sai usare quando parli del nostro amato paese. Tu hai voluto ricordare quel periodo, forse il più brutto della nostra storia, che ebbe inizio nell’anno 1580.
Quando sembrava che la situazione stesse un po’ migliorando e la popolazione stesse un po’ crescendo, ecco il terremoto di martedì 1° novembre 1633, ore 20, che porta a San Benedetto nuove distruzione e morte.
I pochi superstiti dovettero rimboccarsi le maniche e ricominciare. La lotta per sopravvivere fu molto dura, se è vero che ai tempi della nostra infanzia gli abitanti erano solo 142.
La Storia, però, ci insegna che tante città, tanti paesi sono risorti dalle loro rovine più belli di prima. E’ questo l’augurio che facciamo al nostro paese.
Don Angelo, compare Ninuccio, noi non possiamo dimenticare quanto ci è costato ottenere un sacrosanto diritto per i nostri bambini.
Spesso mi domando:’Quanto tempo dovrà passare ancora, quanti sacrifici e quante umiliazioni dovranno sopportare i nostri posteri prima che il nostro paese riacquisti, almeno in parte, l’antica dignità?’
E che dignità era quella dei nostri antenati!
Io qui non posso e non voglio raccontare tutta la nostra storia, dalla nascita di Marruvio al 1580, anno della traslazione della sede vescovile in Pescina e della morte della Civitas Valeria.

Da quanto ho appreso da ragazzo, però, due fatti del nostro passato mi sono rimasti impressi per tutta la vita e voglio qui raccontarli con la speranza che essi non saranno mai cancellati dalla memoria dei Sambenedettesi.
Il primo è questo: quando il 21 aprile dell’anno 753 avanti Cristo sul colle Palatino Romolo tracciò con l’aratro il perimetro quadrato della città che si chiamerà Roma, già da alcuni secoli, sulla riva orientale del lago Fucino, una bella e grande città si specchiava nelle sue limpide acque.
Il suo nome era Marruvium.
La città di Marruvium era, dunque, molto più antica della città di Roma.”
Il compito di documentare che Marruvio è più antica di Roma lasciamolo ad Andrea, il quale, per riordinare un po’ le idee, sente il bisogno di una breve pausa.
Noi approfittiamo della pausa per fare una serie di considerazioni che ci aiuteranno a capire meglio le conclusioni di Andrea sull’argomento.
I fatti di cui ci stiamo occupando sono di più di mille anni prima dell’era cristiana.
Le notizie di quell’epoca pervenute fino a noi non sono tutte storicamente documentabili; esse appartengono in parte al mito, in parte alla leggenda e in parte alla storia.
Il mito è una narrazione sui rapporti tra gli dei, gli uomini e i fenomeni naturali. Il mito è creato dalla mente dell’uomo, perciò lontano dalla realtà, dalla verità storica.
La leggenda potrebbe essere definita come storia mescolata all’invenzione. Nella leggenda i fatti, i personaggi o sono inventati o, semplicemente, alterati o amplificati dalla fantasia dell’uomo o dalla tradizione.
La Storia, invece, come ha scritto più di 2000 anni fa lo scrittore e uomo politico romano Marco Tullio Cicerone, è “.... testimonianza del Tempo, luce di Verità e vita della Memoria”.
Fatta questa distinzione, procediamo con un’altra considerazione: il problema delle immigrazioni, o, meglio, delle migrazioni di gruppi di persone da un paese all’altro, da un continente all’altro.
Noi oggi in Italia questo problema lo conosciamo bene, da molto tempo l’abbiamo davanti ai nostri occhi. Il fenomeno, però, è antico quanto l’uomo.
Anche più di 3000 anni fa ci furono gruppi di uomini che lasciarono il loro paese e vennero a stabilirsi nella nostra Penisola. Ne citiamo alcuni.
Dalla Lidia, una regione dell’odierna Turchia orientale, il re Tarconte, pronipote del sommo Giove in linea paterna, venne in Italia con una numerosa schiera di uomini che furono chiamati Etruschi. Essi si stabilirono nella Tuscia, l’odierna  Toscana e fondarono splendide città come Tarquinia, Pisa e persino Mantova in Lombardia. Gli Etruschi hanno lasciato in Toscana e in altre regioni numerosi segni della loro meravigliosa civiltà.
Dall’Arcadia, regione della Grecia, venne in Italia, prima della caduta di Troia, Evandro, mitico figlio di Ermes, a sua volta figlio di Giove. Evandro condusse la più antica colonia di gente nel Lazio, dove regnava Fauno, una divinità pastorale.
Evandro fondò sul colle Palatino, dove più tardi sorgerà Roma, una “città”, che, dal nome del suo avo Pallante, chiamò Pallantium, detta anche Pallantea.
Dopo la caduta e l’incendio di Troia, città della Troade, regione della Turchia nord-occidentale, a conclusione di una guerra tra Greci e Troiani durata molti anni, scoppiata perché il troiano Paride aveva rapito Elena, moglie del re greco Menelao, i Troiani scampati alla strage migrarono verso altri Paesi.
Tra gli scampati alla strage c’era Enea, figlio della dea Afrodite e di Anchise, discendente in linea paterna da Giove.
Dopo molte peripezie, Enea, con un grosso gruppo di Troiani, approdò nel Lazio, accolto amichevolmente dal re Latino.
Anche Latino è un personaggio mitico, in quanto figlio di Telemaco e di Circe, la maga incantatrice figlia del dio Sole.
Latino è nel Lazio re dei Borigoni (aborigeni), che dal nome del loro re furono chiamati Latini.
Altro personaggio mitico della storia che Andrea si appresta a raccontare è Turno, re dei Rutuli, una popolazione sulla costa tirrenica a sud di Roma.
Questi mitici personaggi sono tutti coinvolti, su due opposti schieramenti, in una guerra che, come la guerra di Troia, scoppia per una donna. Il re Latino ha una figlia di nome Lavinia, promessa sposa a Turno, il laziale re dei Rutuli.
Ecco intanto l’arrivo del troiano Enea, che convince il re Latino a dargli in moglie Lavinia. E’ guerra tra Turno ed Enea.
Sentiamo come la racconta Andrea, pronto a riprendere la parola:
“Don Angelo, compare Ninuccio, io da ragazzo pensavo che non ci fosse in Italia una città più antica di Roma. Ma poi, la lettura del libro VII dell’ “Eneide” e quella guerra tra il troiano Enea e il laziale Turno per una donna…..!
Le guerre, si sa, si combattono con due eserciti che si fronteggiano.
In aiuto di Enea vengono gli Etruschi del re Tarconte e i Greci del re Evandro.
Con Turno stanno tutte le popolazioni laziali, ma gli uomini non sono molti.
Turno chiede aiuto anche a popolazioni di altre regioni.
Dalla terra dei Marsi ecco arrivare una schiera di Marruviani, che, per incarico del re Archippo, sono comandati da Umbrone, non solo bravo guerriero, ma anche “Sacerdote della stirpe Marruvia”.
Il fortissimo Umbrone con il canto e con il gesto della mano faceva addormentare le vipere e con le erbe raccolte sui monti dei Marsi curava persino i morsi velenosi delle stesse.
Umbrone morì in battaglia, colpito dalla punta di un dardo troiano. Le erbe che aveva portato con sé non riuscirono a curare la brutta ferita.
La sua morte fu pianta “dai boschi di Angizia, dal Fucino dall’onda vitrea e dai limpidi laghi”.
La guerra fu vinta da Enea, che poté così sposare Lavinia. Saranno i loro discendenti, alcuni secoli dopo, a fondare Roma.
Quanta storia del nostro paese nella vicenda di Umbrone, guerriero e sacerdote della stirpe marruvia!
La città di Marruvium più antica della città di Roma!
Ogni volta che ripenso a questo fatto io mi commuovo.
E mi commuovo ancora di più per un altro episodio della nostra antica storia.
Non avevo neppure dieci anni quando mio nonno Domenico mi mostrò il disegno di un’antica moneta d’argento dicendo: ‘Questa moneta è importante non solo perché è di quasi 1900 anni fa, ma soprattutto perché vi è rappresentato un pezzo della nostra storia: nella moneta sono visibili otto guerrieri che stanno giurando di essere uniti nella guerra contro Roma. Uno di quei guerrieri è un nostro antenato, un marruviano!’.”
I fatti che hanno destato tanto interesse in Andrea, ragazzo di 10 anni, non appartengono al mito o alla leggenda, ma alla storia vera, alla storia che è luce di verità.
E proprio perché appartengono alla storia, di quella guerra e di quella moneta noi possiamo sapere di più di quanto ne abbia ricordato Andrea.
Raccontare tutta quella storia sarebbe troppo lungo, ma inquadrare in essa e sottolinearne le notizie che sono memoria del passato è d’obbligo.
Come, quando e perché scoppiò quella guerra tra Roma e i popoli italici (Marsi, Peligni, Sanniti, Lucani ed altri) che provocò la morte di molte decine di migliaia di persone (una fonte parla di 300.000 morti)?
La guerra, combattuta tra il 91 e l’87 a.C., fu detta Guerra Sociale.
I popoli italici, tutti sotto l’autorità romana, erano considerati “soci”, alleati, partecipando alle continue guerre di espansione di Roma e fornendo uomini e risorse finanziarie. Particolarmente notevoli erano stati gli aiuti nella guerra di Roma contro Pirro, re dell’Epiro, e contro i Cartaginesi di Annibale (Guerre Puniche).
Dei benefici derivanti dalle conquiste godevano maggiormente i cittadini romani: cittadini romani non nel senso di quelli che abitavano a Roma, dove più della metà della popolazione era formata da schiavi, ma di quelli che avevano il diritto di cittadinanza romana.
Occorre spendere qualche parola sul significato di cittadinanza in generale e di cittadinanza romana in particolare.
 

La cittadinanza, allora come ancora oggi, è lo stato giuridico di appartenenza ad una precisa comunità politica con diritti (come la partecipazione attiva all’organizzazione della comunità stessa, l’ottenimento di servizi, ecc.) e doveri (come la solidarietà, la difesa di interessi comuni, il rispetto di tutte le regole e leggi della comunità, ecc.).
Nella storia di Roma lo stato giuridico di appartenenza allo stato romano (cittadinanza romana) all’inizio era gelosamente limitato alle genti, alle famiglie che avevano fondato la stessa città di Roma.
Questo diritto di cittadinanza era detto “diritto dei Quiriti”. Quiriti erano il popolo più antico di Roma, di origine sabina.
Il cammino per il passaggio da questa limitazione (diritto dei Quiriti) alla concessione ad altri popoli del diritto di cittadinanza romana fu molto lungo e spesso molto tragico. Dovettero passare ancora tre secoli fino all’anno 212 d.C., quando l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero (dai 40 ai 60 milioni di individui).
Ma torniamo a quei popoli italici che da molto tempo chiedevano a Roma di non essere più considerati cittadini di grado inferiore e di poter acquisire il diritto di cittadinanza romana.
Nel passato proposte per la concessione erano state fatte da eminenti personaggi romani (quali Scipione Emiliano, i fratelli Tiberio e Caio Gracco, il console Fulvio Flacco), ma esse erano state respinte dal Senato.
E’ l’anno 91 a. C.: a Roma il tribuno Livio Druso presenta la sua proposta per la cittadinanza agli Italici.
Prima che questa venga discussa in Senato, il proponente tribuno Druso viene assassinato.
E’ evidente che la classe dirigente di Roma non ha nessuna intenzione di venire incontro agli Italici.
E questi capiscono che, ormai, la questione non sarebbe mai stata risolta politicamente. Occorre un forte atto di rivolta contro Roma.
L’uccisione di Druso è la goccia che fa traboccare il vaso.
Prima a ribellarsi è la città di Ascoli Piceno, dove vengono massacrati tutti i cittadini romani che vi si trovano. La rivolta di quasi tutti i popoli italici, dalle Marche alla Lucania, porta alla nascita della “Confederazione Italica”, un nuovo Stato strutturato come lo Stato Romano, uno Stato che ha un suo esercito, un suo Senato, i suoi due consoli, i suoi  magistrati e la sua Capitale.
• Viene scelta come capitale una città abruzzese, nella terra dei Peligni: Corfinio, a cui viene dato il nome di ‘Italica’.
• Vengono eletti i primi due consoli: uno di essi è il marruviano Poppedio Silone.
• Viene approntato un esercito di 100.000 uomini, bene armati e bene addestrati, operante in parte al sud, nel Sannio, e in parte al centro, tra le Marche e la Marsica. Al comando dell’esercito un altro nostro antenato, il marruviano Vezio Scatone.
• Vengono coniate monete d’oro e d’argento.
Anche Roma dispone di un esercito di 100.000 uomini sotto la guida di validissimi comandanti, tra cui Mario e Silla.
Nei primi scontri i Romani subiscono sconfitte. Nel 90 a. C. i Marsi, comandati dal nostro Vezio Scatone, attaccano i Romani presso il fiume Tolero nel Lazio. I Romani sconfitti lasciano sul terreno 8.000 morti, compreso il console P.R. Lupo. Allo scontro partecipa anche Caio Mario.
Poi la situazione si capovolge. I Romani hanno un’arma in più. E’ la potente arma del “divide et impera”, cioè “dividi (gli avversari) e comanda”.
Con leggi successive i Romani:
• concedono la cittadinanza romana ai popoli italici che non avevano preso le armi contro Roma;
• estendono il diritto di cittadinanza romana alle comunità che ne facciano richiesta ai Pretori entro due mesi.
Inevitabili le ripercussioni sulla compattezza dei Confederati.
Occupata Corfinio dai Romani, la capitale viene spostata prima a Boviano e poi a Isernia.
A Isernia i Confederati cercano di riorganizzarsi, ma, a combattere contro i Romani, ci sono solo i Marsi (al comando di Vezio Scatone), i Sanniti e i Lucani (al comando di Poppedio Silone).
Nell’88 a.C. i Romani sconfiggono prima i Marsi, che perdono il loro capo Vezio Scatone, e poi a Teano Apulo sconfiggono e uccidono anche Poppedio Silone.
Nell’87 a.C. finalmente Roma concede la cittadinanza romana anche a tutti i popoli che si erano ribellati.
Finisce così la guerra degli Italici contro Roma, nella quale due nostri antenati, i marruviani Poppedio Silone e Vezio Scatone, sono stati protagonisti di prim’ordine. 

 

Capitolo 7 : UNA MONETA, MEMORIA DEL NOSTRO PASSATO.

Delle numerose monete fatte coniare dagli Italici durante la “guerra sociale” sono rarissime quelle pervenute fino a noi.
Silla fece confiscare e fondere tutte le monete degli Italici in circolazione.
Oggi, per fortuna, grazie a internet, è possibile trovare, nella collezione ”Le monete dell’Italia antica” di R. Garducci – Roma 1885 (Fig. 22 in Appendice), copia della stessa moneta che Andrea aveva visto tra le mani di suo nonno.
Mediante ingrandimenti noi possiamo vedere tutti i suoi particolari (Fig. 23 in Appendice).
La moneta, d’argento, è denominata “Giuramento a otto”. Nel dritto della stessa è incisa la testa, con corona di alloro, dell’Italia, rivolta a sinistra. Si notano una collana e un orecchino pendente.
Dietro la testa leggiamo la parola “Italia”.
Forse è la prima volta che il nome della nostra Patria viene inciso su una moneta.
Nel verso sono incisi otto guerrieri, quattro a destra e quattro a sinistra, che stanno giurando di essere uniti nella guerra contro Roma.
Tra i due gruppi di guerrieri, in ginocchio, c’è un sacerdote feciale che tiene in braccio un maialino.
Presso i Romani i Feciali erano un collegio di venti sacerdoti, il cui compito era quello di consegnare al nemico la dichiarazione di guerra e di intervenire per i trattati di pace.
Gli otto guerrieri hanno le spade puntate verso il maialino; nel centro, ma nella parte posteriore, c’è un palo con un vessillo.
Infine, sempre nel ‘verso’, nella parte inferiore c’è il cosiddetto “esergo”, il fuori del lavoro: cioè, in questo caso, lo spazio dove viene scritto il nome della Zecca.
Qui la lettera “E” maiuscola sta ad indicare la zecca di Corfinio.

 

Capitolo 8 : LE CONCLUSIONI DI ANDREA.

Andrea, nel riprendere la parola, giustamente ricorda ancora una volta l’importanza di quella moneta: “Anche questa moneta è memoria del nostro passato, perché uno degli otto guerrieri che giurano è un marruviano, un nostro antenato.”
Poi prosegue:
“Lasciamo, per ora, i ricordi del nostro glorioso passato e torniamo al motivo del nostro incontro.
Compare Ninuccio, io approvo tutto quello che hai detto, ma quella proposta dei Pagliarellesi per il confine dei due quartieri lungo il Fosso dei Frati proprio no, perché si complicherebbe ancora di più il problema che noi, con l’aiuto di don Angelo, vogliamo e dobbiamo risolvere.
Noi sappiamo come è nata quella storiella del confine al Fosso dei Frati. Ricordiamola e facciamo conoscerla a tutti i Sambenedettesi.
Don Angelo, tu quella storia la conosci meglio di noi, ma voglio raccontarla io, così come a me l’ha raccontata mio padre.
Alcuni decenni fa c’era stata nella nostra zona una brutta carestia. La mola del Molino di Civita aveva smesso di girare, perché non c’era grano da macinare.
Un bel giorno ecco arrivare a San Benedetto dalle parti di Roma un grosso carico di grano da vendere alle famiglie e al Molino di Civita. Lo aveva portato un uomo d’affari romano che si faceva chiamare “Barone”.
Esaurita la vendita del grano, il “Barone” se ne tornò a Roma. Sarebbe tornato a San Benedetto l’anno successivo, per riscuotere quanto dovutogli per il prezzo del grano e i relativi interessi, non proprio favorevoli per gli acquirenti.
Alla fine della nuova stagione dei raccolti, ecco puntuale il ritorno del “Barone” a San Benedetto.
Anche quell’anno, però c’era stata carestia e non tutti erano in grado di saldare il debito con il “Barone”.
Il “Barone” rimase a San Benedetto parecchi giorni, perché doveva riportare a Roma almeno quanto dovutogli per la vendita del grano senza tener conto – diceva lui – degli interessi.
Il “Barone” aveva ormai fatto conoscenza con tutti gli abitanti del villaggio, ai quali diceva di essere un bravo conoscitore di geografia.
Ad alcuni aveva anche confidato di aver letto tutti i nove volumi di un’opera geografica di Leone Africano.”
Andrea di Leone Africano conosceva solo il nome, ma di questo personaggio è utile sapere alcuni fatti della sua vita.
Le sue vicende appartengono alle cosiddette “pagine bianche della Storia”, cioè a quei fatti che i libri di storia o non registrano affatto o ne danno brevi e, a volte, incomplete notizie.
Il vero nome di Leone Africano è Hasan Ibn Muhammad al Wazzan, un musulmano nato a Granada (Spagna) nel 1485.
Sette anni dopo Granada fu riconquistata dai Cristiani e la famiglia di Hasan si trasferì a Fez (Marocco). Qui Hasan compì i suoi studi e sui trent’anni venne mandato ambasciatore del Marocco presso il sultano Ottomano in Turchia. Nel 1518, tornando in Marocco, fu fatto prigioniero da un pirata cristiano.
Negli anni che vanno dall’inizio del 1500 ai primi anni del 1800 il mare Mediterraneo era infestato dalla guerra dei corsari musulmani e cristiani. In mare si attaccavano la navi nemiche, si catturavano gli uomini a bordo, si sbarcava sulle coste italiane e della Francia meridionale. Si facevano prigionieri anche donne e bambini. Tutto questo per il cosiddetto mercato degli schiavi.
Gli schiavi cristiani potevano:
• convertirsi all’Islam e tornare liberi;
• pagare un riscatto per la liberazione,
• rimanere schiavi ed essere oggetto di vendita tra un padrone e l’altro.
I prezzi del riscatto erano sempre molto alti.
Nel 1560 per il vescovo di Catania Caracciolo, catturato e portato a Tripoli, dopo lunghe trattative, furono sborsati 3.000 scudi, con l’impegno di versarne altri 3.000 qualora il vescovo liberato fosse diventato Papa.
Il famoso scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, autore del libro “Don Chisciotte”, catturato in mare nel 1575 mentre tornava in Spagna e portato ad Algeri, dovette lavorare da schiavo cinque anni, perché sua madre aveva solo 280 scudi dei 500 richiesti per il suo riscatto.
E il prigioniero-schiavo Hasan?
Fu portato a Roma e “donato” al papa Leone X, che lo fece battezzare, imponendogli il nome di Giovanni Leone dei Medici. Giovanni dei Medici erano le generalità di Leone X prima di diventare papa.
A Roma Hasan imparò presto l’italiano e nel 1523 scrisse in italiano il libro “Descrizione dell’Africa” in nove volumi. Questo libro, sotto alcuni aspetti, in geografia ha la sua validità ancora oggi.
Morto il Papa, Hasan tornò in Africa, ridivenne musulmano e riprese il suo nome, anche se nelle enciclopedie di tutto il mondo è noto come Leone Africano, forse in omaggio a Leone X, alla cui corte era nato il suo libro più famoso e in omaggio anche all’Africa, che egli conosceva e aveva descritto così bene.
Noi abbiamo dovuto farne un breve cenno perché il “Barone” si servì proprio di questo libro per dare alcuni consigli ai Sambenedettesi.
Di quali consigli si tratta, ascoltiamolo da Andrea.
“Don Angelo, compare Ninuccio, anche noi, durante la nostra vita, abbiamo assistito alle tracimazioni delle acque del fiume Giovenco dentro l’abitato di San Benedetto. A volte queste tracimazioni, per i danni che arrecano, non sono da meno di quanto avviene durante le escrescenze del lago Fucino.
Durante la sua permanenza a San Benedetto il “Barone” era rimasto molto impressionato da una violenta tracimazione delle acque del Fosso dei Frati.
A quelli che gli stavano vicini il “Barone” diceva: “Dalla lettura dell’opera del grande geografo Leone Africano, ho tratto alcune considerazioni, che, all’occasione, sento quasi il dovere di comunicare ad altri.
Questo spettacolo delle acque che invadono e danneggiano tanta parte del paese potrebbe e dovrebbe essere cancellato dalla visione dei vostri occhi.
Noi sappiamo che i fiumi, i corsi d’acqua in genere, difficilmente fanno tracimare le loro acque quando segnano i confini tra due Stati, tra due regioni, tra due paesi, perché sono due i soggetti che ne curano la manutenzione e si fa quasi a gara per erigere opere di protezione lungo le due rive.
Quando i corsi d’acqua appartengono ad un solo soggetto, spesso sono trascurati o tenuti male, come questo vostro Fosso dei Frati.
Occorre fare di questo il confine fra due quartieri e vedrete che di questi allagamenti ci sarà solo il ricordo.
Quando il “Barone – geografo” volle dare quel consiglio ai Sambenedettesi, questi avevano ben altri problemi da risolvere dopo due anni di carestia, perciò non se ne fece nulla.
Qualcuno, però, ne conserva il ricordo.
Compare Ninuccio, lasciamole perdere anche noi le raccomandazioni del “Barone”, perché abbiamo altri problemi da risolvere.
Non parliamo poi dei confini, che sanno di separazioni, di esclusioni, di steccati.
San Benedetto ha bisogno di essere unita, per recuperare, almeno in parte, l’antica dignità.
Don Angelo, noi non siamo riusciti ad evitare che nel nostro piccolo villaggio si creasse una brutta frattura che tanto dispiacere ti ha arrecato.
Ora noi confidiamo nel tuo intervento e, qualunque sarà la tua proposta, cercheremo di farla accettare da tutti i Sambenedettesi.
A te, don Angelo, la parola.”
Ninuccio si dichiara d’accordo con quanto detto da Andrea.

Capitolo 9 : LA PROPOSTA DI DON ANGELO MARIA.

Don Angelo, ormai pronto a far conoscere la sua proposta, così inizia: “Andrea e Ninuccio, io ho ascoltato attentamente tutto quello che avete detto, ricordando pagine tristi e pagine belle della nostra storia.
Ora tocca a me sciogliere un nodo intricato e risolvere un difficile problema insieme a voi due: ho già pronta la mia proposta e sono certo che voi l’accetterete.
Io, quando studiavo per diventare prete, provavo molto piacere nel leggere le opere in latino di Gaio Crispo Sallustio, lo scrittore morto nel 35 a. C..
Egli era nato ad Amiternum, oggi San Vittorino, non lontana dalla città di Aquila, quasi un nostro conterraneo.
Nelle sue opere trovavo delle frasi che io consideravo come proverbi e le imparavo a memoria.
Quelle frasi mi tornano in mente quando debbo prendere una decisione e scegliere tra varie ipotesi, tutte razionalmente valide.
Anche in questo momento mi sta tornando in mente uno di quei “proverbi”, che, tradotto dal latino in italiano, dice così:                  
“Con la concordia le piccole fortune crescono,
   con la discordia vanno in rovina (anche) le più    grandi.”
Ora, a ben guardare, le nostre fortune non sono né piccole né grandi. Meglio potremmo dire che non ne abbiamo affatto.
Sta a noi tutti Sambenedettesi iniziare a crearle e a farle crescere.
Questo, però, sarà possibile solo nella concordia.
Andrea, Ninuccio, voi non avete proposte da fare e io ne capisco il perché.
A me, invece, non è consentito dire di non avere almeno una proposta. Non vi nascondo le difficoltà incontrate nel trovarla e non sono certo che essa sarà tale da piacere a tutti.
Il nostro paese è ancora troppo piccolo per dividersi in due quartieri di 200 abitanti ciascuno.
San Benedetto è destinata a crescere, lo vuole la sua antica storia, lo vogliamo noi Sambenedettesi tutti.
Quando gli abitanti non saranno più poche centinaia, ma diverse migliaia, i quartieri della Cittadella e delle Pagliarelle cresceranno e di quartieri ne nasceranno altri.
Allora ci sarà una gara tra i quartieri per rendere più bello il nostro paese e splendidi edifici torneranno a specchiarsi nelle limpide acque del lago Fucino.
Così era la città dei nostri antenati, così sarà il paese dei nostri posteri.
Forse voi direte che io sto sognando il futuro del nostro amato piccolo villaggio con la mente e il cuore rivolti al reale passato di Marruvio e di Valeria.
E’ proprio così: noi non dobbiamo mai dimenticare che il futuro è sempre frutto del passato.
E che passato era quello dei nostri antenati, come poco fa anche tu, Andrea, hai ricordato.”
Le parole di don Angelo nascono dal suo intenso amore per il paese natìo.
Quell’accenno al passato commuove tutti e tre i protagonisti della nostra storia.
Lasciamoli per un momento alle loro commozioni e cerchiamo di capirne il perché.
Don Angelo Maria la storia antica e recente del suo paese la conosceva bene e ne conosceva bene anche il suo triste presente.
Il suo cuore, però, più che la sua mente, lo porta a bene sperare per il futuro.
Le speranze di don Angelo Maria nascono dalla visione della chiesa di Santa Sabina, tra le più antiche, se non la più antica cattedrale d’Abruzzo.
Nonostante le asportazioni, nei due secoli precedenti, di pietre, di arredi e persino delle campane, la prima cattedrale dei Marsi è ancora là, intatta nella sua bellezza e nel suo splendore.
Altra speranza per don Angelo Maria nasce dalla lettura della Bolla del 1° gennaio 1580, con la quale il pontefice Gregorio XIII aveva autorizzato la traslazione della sede vescovile dalla cattedrale di Santa Sabina a quella che sarà poi la nuova cattedrale di santa Maria delle Grazie in Pescina.
Quella traslazione nelle intenzioni di papa Gregorio XIII aveva carattere provvisorio. Nella Bolla era ben evidenziato il fatto che, una volta restaurate e riportate al dovuto e opportuno stato la città e la sua cattedrale, la sede e la residenza del vescovo dovevano essere riportate nella città di Valeria.
Quello che non era accaduto negli ultimi due secoli poteva accadere ancora?
Don Angelo Maria lo sperava: era questa la speranza per il futuro del suo amato piccolo villaggio .
Ripresisi tutti e tre dalla emozione, don Angelo Maria è pronto a continuare il suo discorso per far conoscere, finalmente, la sua proposta.
“Andrea e Ninuccio, ora dovete ascoltarmi attentamente e capire bene quello che sto per dirvi.
Entriamo insieme, con la mente, nella nostra Chiesa Benedettina. Il mio coadiutore don Antonio sta celebrando la Messa.
La Messa, come tante volte vi ho fatto presente nelle mie omelie, è il ricordo, la rinnovazione del sacrificio della Croce, sacrificio del corpo e del sangue di Gesù sotto le apparenze del pane e del vino.
Perché quel sacrificio possa rinnovarsi sono necessari non solo l’altare e non solo l’offerta del pane e del vino, ma anche le invocazioni che solo il sacerdote può rivolgere a Dio Padre.
Torniamo ora alle rivendicazioni dei nostri due piccoli quartieri.
La Chiesa Benedettina, in cui noi celebriamo le varie funzioni religiose, è una e si trova là dove il nostro papa San Bonifacio IV ha voluto che fosse.
La chiesa, come è evidente, non si può spostare; quelli che si possono spostare sono, invece, i sacerdoti. 
Il canonico don Firmino, don Antonio ed io abbiamo deciso di porre le nostre abitazioni nel quartiere delle Pagliarelle, nella stradina che si trova a pochi passi dai sacri luoghi benedettini. E così sarà anche con i sacerdoti nostri successori, fino a quando il quartiere delle Pagliarelle vedrà moltiplicati i suoi abitanti e i Pagliarellesi potranno vedere realizzato un loro antico sogno: avere una propria chiesa con le sue campane.
Andrea e Ninuccio, questa è la mia proposta per far tornare la pace e la concordia a San Benedetto.
Voi, con i cenni del vostro capo, avete approvato tutte le mie parole ed ora il vostro compito è quello di farle approvare dagli abitanti dei vostri due quartieri.
Caro Ninuccio, il tuo compito sarà molto più difficile di quello di Andrea, ma io confido nella tua ben nota saggezza.”
Finalmente don Angelo Maria può versare nei tre bicchieri il buon vino della vigna dei Benedettini per brindare alla ritrovata pace.
La proposta di don Angelo Maria sarà accolta favorevolmente dagli abitanti dei due quartieri, anche se resta incancellabile il desiderio dei Pagliarellesi per una propria chiesa e una propria campana.
Per la storia la stradina dove andranno ad abitare i tre religiosi si chiamerà in seguito “Via dei Sacerdoti”.
Quel nome, sfidando il tempo che tutto travolge, oggi è ancora lì sul vecchio muro, per ricordare a noi una memoria del nostro passato.
Questo è l’epilogo di una storia del nostro passato, cancellata dalla memoria e che noi abbiamo tentato di far rivivere.  
Per la curiosità, però, non c’è quasi mai un epilogo: quando pensi di dover mettere la parola “fine”, ecco degli interrogativi a cui bisogna pur dare una risposta.
Che ne è stato dei ladri di pietre ricordati da Ninuccio?
Che ne è stato dell’accorato appello di Andrea: “Quanto tempo dovrà passare ancora, quanti sacrifici e quante umiliazioni dovranno sopportare i nostri posteri prima che San Benedetto riacquisti almeno un po’ della sua antica dignità?”
Che ne è stato, soprattutto, delle speranze di don Angelo Maria per il futuro del suo amato villaggio?
Noi, a distanza di oltre due secoli, una risposta a quegli interrogativi possiamo e dobbiamo darla.


 

Capitolo 10 : FUTURO TRA SPERANZE E REALTA'.

L’asportazione delle pietre da San Benedetto era per Ninuccio un fenomeno del passato.
Ladri di pietre, invece, saranno presenti nel nostro paese per molti anni ancora.
Non è azzardato dire che ancora oggi c’è gente a cui piace tenere per sé un ricordo litico del nostro passato.
Non è giusto, però, tenere solo per sé quello che è di tutti.
Nonostante gli scempi dei secoli e degli anni passati San Benedetto è ancora ricca di tesori nascosti; bisogna, però, saper conservarli bene quando vengono alla luce.
Al centro della storia che abbiamo raccontato ci sono i luoghi benedettini. Gli edifici sacri furono distrutti dal terremoto del 1915.
Nel luogo dove era la Chiesa Benedettina fu costruito alcuni decenni fa un edificio adibito prima a scuola materna e poi a sede di servizi vari.
All’interno, lungo il muro di recinto, sono conservate alcune pietre, recuperate dagli scavi, di notevole mole e di bella e originale fattura.
Quelle pietre non possono rimanere ancora a lungo lì dove si trovano ora, con il pericolo che il loro numero diminuisca.
Nell’interno del recinto c’è spazio perché con quelle pietre possa erigersi un monumento quale testimonianza di quattordici secoli della nostra storia.
Le pietre hanno un loro particolare linguaggio per parlare con noi. Facciamo in modo, oggi, che anche i nostri posteri possano ascoltare le loro lontane flebili voci.
Una risposta anche all’interrogativo di Andrea:
“Quanto tempo dovrà passare ancora prima che San Benedetto riacquisti almeno un po’ della sua antica dignità?”
Purtroppo ci vorranno ancora 157 lunghi anni per la storica conquista dell’autonomia il 7 settembre 1945.
Episodi di quella storia sono stati illustrati nel nostro opuscolo “Dalla Civitas Valeria al nuovo Comune di San Benedetto dei Marsi”, dato alle stampe nel mese di luglio 2008.
Qui solo un invito ai Sambenedettesi a non dimenticare che:
- il nostro amato paese è nato sulle rovine di Valeria dal sacrificio di pochi coraggiosi;
- la riacquistata dignità è costata lunghi periodi di lotte e sacrifici.
Don Angelo Maria non era un profeta e neppure un indovino, ma le speranze per il futuro del suo ancora piccolo villaggio poggiavano su una base logica.
Egli, nel corso della sua vita, aveva visto crescere gli abitanti di San Benedetto dai 142 del tempo della sua adolescenza ai 400 del tempo della storia che abbiamo raccontato.
La crescita degli abitanti era ormai inarrestabile. Nel corso di un secolo San Benedetto sarà dieci volte più grande dai 400 ai 4000 residenti.
Don Angelo Maria vedeva in prospettiva, oltre alla crescita degli abitanti, la nascita di altri quartieri con le loro chiese e i loro campanili.
E anche il sorgere di belli e nuovi edifici che si specchiavano nelle limpide acque del lago Fucino.
San Benedetto era o non era la Posillipo di Pescina?
Ma don Angelo Maria vedeva soprattutto appagato il desiderio dei Pagliarellesi di avere, finalmente, una propria chiesa e una propria campana.
Si sa, però, che la logica dell’uomo non sempre coincide con la logica della storia, che non devia mai dal percorso scritto nel libro di Chi la governa.
Ci furono due fatti che don Angelo Maria non avrebbe mai potuto prevedere:
- il prosciugamento totale del lago Fucino;
- il terremoto del 13 gennaio 1915.
Presso alcuni paesi rivieraschi il lago Fucino non godeva buona fama. Le sue non rare escrescenze arrecavano danni alle abitazioni, specialmente ad Ortucchio e a San Benedetto.
Alcune volte le acque del lago ghiacciavano, impedendo ogni attività dei pescatori.
Nella “Cronaca” - notizie storiche della Contea di Celano (1191-1241) del cronista del tredicesimo secolo Riccardo da San Germano - è detto che nell’anno 1226 “…. Il lago della Marsica, detto Fucino, gelò talmente che gli uomini vi camminavano sopra, i buoi vi trascinavano travi e altra legna necessaria alla cucina….”.
Più interessante quanto scritto su una pergamena del Settecento conservata nel Museo Civico di Cerchio. Ne riassumo il contenuto:
Nell’anno di nostro Signore 1683 ci furono grandissimi freddi. Tutto il lago Fucino rimase ghiacciato per due mesi, dal 16 gennaio al 15 marzo.
In quei  due mesi, non potendosi pescare né usare le barche, alcuni di Ortucchio, per recuperare pesci, spaccavano il ghiaccio con le accette.
Fatto unico e mai più ripetuto, alcuni Trasaccani si recarono a San Benedetto camminando sul ghiaccio. Nel tornare a Trasacco per il medesimo percorso riuscirono a catturare una grande quantità di folaghe e  di anatre.
Qui non dobbiamo ricordare la storia del prosciugamento del lago Fucino, ma diciamo soltanto che nell’anno 1877 il lago Fucino non esisteva più.
Ecco come espresse la sua protesta il grande storico tedesco Ferdinando Gregorovius (1821-1891), in visita nella Marsica quando il prosciugamento del lago Fucino stava per essere completato:
“Che specchio d’acqua meraviglioso deve essere stato il lago quand’era colmo!.... Non posso conciliarmi con l’idea che debba sparire per sempre questo incantevole lago sulle cui onde azzurre si sono rispecchiati per dei millenni quei monti maestosi e quelle antichissime città.”
Una di quelle antichissime città era la nostra Marruvio e poi la nostra Valeria.
Per effetto del totale prosciugamento del lago San Benedetto cambierà volto. Vediamo alcune delle conseguenze in rapporto alle speranze, espresse un secolo prima, da don Angelo Maria.
Egli aveva previsto una grande crescita del numero degli abitanti di San Benedetto. Il fatto si verificò nella seconda metà dell’Ottocento quando gli abitanti passarono dai 930 del 31 dicembre 1866 ai 4000 di una trentina di anni dopo.
Ma, cosa che don Angelo Maria non avrebbe potuto prevedere, la metà della popolazione non era di origine marruviana.
Già durante le fasi del prosciugamento del lago, molte famiglie provenienti dalle altre province dell’ Abruzzo e in cerca di lavoro trovarono una sistemazione nel nostro paese.
A San Benedetto si sentivano parlare tutti i dialetti dell’Abruzzo.
Non sorsero allora nuovi quartieri con proprie chiese e proprie campane.
I nuovi arrivati si sistemarono nei vecchi quartieri della Cittadella e delle Pagliarelle, dilatandone l’estensione.
Erano stati ricostruiti in prossimità della riva del lago belli e nuovi edifici, ma questi potettero rispecchiarsi nelle limpide acque dello stesso solo per pochi anni.
Per le esigenze religiose dell’accresciuta popolazione fu riparata e riaperta al culto la Cattedrale di Santa Sabina, affidata alle cure della Confraternita di san Vincenzo Ferreri.
Ora San Benedetto non è più il piccolo amato villaggio di don Angelo Maria, di Andrea e di Ninuccio. E’ già una cittadina piena di vita. Il paese è tutto un cantiere per approntare le case dei nuovi arrivati.
Per conoscere bene come era veramente San Benedetto negli ultimi decenni dell’Ottocento possiamo attingere ad una fonte autorevole, cioè a quanto ha scritto in una sua relazione mons. Federico De Giacomo, abruzzese di Bucchianico (provincia di Chieti) e vescovo dei Marsi dal 1872 al 1884.
Riferendosi agli abitanti di San Benedetto il vescovo De Giacomo scrive:”…..il loro numero cresce di giorno in giorno, specialmente per le continue immigrazioni, cosicché sembra (potersi) prevedere che la stessa ‘Cittadella’ sarà di nuovo destinata alla potenza e allo splendore di una città popolosa.”
Con le parole ‘di nuovo’, ‘potenza’, ‘splendore’, ‘città popolosa’ il vescovo De Giacomo voleva dire anche che si sarebbero verificate le condizioni per riportare la sede vescovile nella Cattedrale di Santa Sabina, come aveva precisato il papa Gregorio XIII nella sua bolla del 1° gennaio 1580?
Ancora una volta, però, la logica dell’uomo non coincide con la logica della Storia, nel cui libro era scritto che un brutto giorno, il 13 gennaio 1915, un terrificante terremoto avrebbe spazzato via tutti i sogni, tutte le speranze.
Quasi tutte le case di San Benedetto furono rase al suolo.
La bella Chiesa Benedettina e la bellissima Cattedrale di Santa Sabina non c’erano più.
Evento molto più doloroso: non c’era più il 65% della popolazione, perita sotto le macerie.
Scomparse intere famiglie, anche quelle numerose.

 

Capitolo 11 : L'ANTICO SOGNO DEI PAGLIARELLESI DIVENTA REALTA'.

Il terremoto del 1915 aveva rese vane tutte le speranze dell’economo-curato don Angelo Maria, espresse nel 1788, per il futuro di San Benedetto, allora un villaggio di 400 abitanti.
Ed erano state vanificate anche le speranze, espresse nella sua relazione quasi un secolo dopo, dal vescovo dei Marsi Federico De Giacomo per il nostro paese, allora una cittadina di 4000 abitanti.
Come se non fossero bastate le vittime del terremoto, ci furono subito dopo quelle della guerra 1915-’18 e dell’influenza detta “Spagnola”.
Dal 1920 può iniziare una vera opera di ricostruzione.
C’è una seconda, ma modesta, “invasione” di Abruzzesi, questa volta dalla terra dei Peligni e dal Teatino, che vengono a sistemarsi a San Benedetto.
Sorgono due nuovi quartieri, che non sono, però, quelli sognati da don Angelo Maria: sono due quartieri di baracche.
Anche la chiesa parrocchiale è una baracca tra le baracche e lo sarà per 36 anni ancora.
In tanto squallore un evento che sa del miracoloso: la crescita del numero degli abitanti. Dopo appena 15 anni gli abitanti del nostro paese passano dai poco più di 1500 superstiti del terremoto ai 4080 del censimento del 1931.
Ma torniamo indietro, al tempo della storia che abbiamo raccontato e dei suoi tre protagonisti: don Angelo Maria, Andrea e Ninuccio.
Quando don Angelo Maria aveva fatto conoscere la sua proposta per far tornare la pace e la concordia a San Benedetto, il meno soddisfatto per la soluzione trovata sembrava proprio lui.
Egli sapeva di non aver potuto accontentare del tutto i Pagliarellesi e non poteva non tener presente l’accorato appello di Ninuccio: non si doveva dimenticare che San Benedetto era nata nel 1580 nei luoghi benedettini e aveva cominciato a crescere nel quartiere delle Pagliarelle.
A quell’appello don Angelo Maria aveva potuto rispondere solo con parole di speranze per il futuro. Ma quel futuro appariva sempre più lontano, mentre il desiderio dei Pagliarellesi di avere una propria chiesa e una propria campana non veniva mai meno, un desiderio che sembrava trasmettersi come un’eredità, di padre in figlio.
E poi, per chi transitava per via Capocroce, nel punto della brutta curva, era triste constatare che il Vicoletto della Chiesa e la Via dei Sacerdoti stavano lì (e lo stanno ancora) l’uno di fronte all’altra, solo per cercare di ricordare ai distratti passanti una memoria del nostro passato che il tempo ha cancellato dal ricordo.
A distanza di quasi due secoli un antico sogno sta per diventare realtà.
Nella storia che abbiamo raccontato è ricorso molte volte il nome Giovanni: festa di San Giovanni, compari di San Giovanni, Giovanni vero nome di Ninuccio, Giovanni nome del padre di Andrea (come vedremo nella seconda parte di questo opuscolo).
A rendere reale quell’antico sogno non poteva non essere che un pagliarellese di nome Giovanni.
Ma chi è veramente quest’ultimo Giovanni della nostra storia?
Noi lo chiamiamo così come era chiamato nel nostro paese e come era conosciuto negli altri centri della Marsica: Giovanni ‘Ciuffelitte’.
Come Giovanninuccio, il suo omonimo del Settecento, il nostro Giovanni apparteneva ad una famiglia di contadini. Anche lui era dotato della straordinaria saggezza propria della gente dei campi.
Egli sapeva quel che voleva e quel che voleva sapeva anche realizzarlo.
Siamo intorno alla metà del secolo XX.
E’ da non molto tempo che è stata innalzata agli onori dell’altare una ragazzina nata a Corinaldo nelle Marche: Santa Maria Goretti.
Giovanni è molto devoto della nuova Santa e fa conoscenza con i familiari ancora viventi della stessa.
In Giovanni nasce l’idea di costruire una chiesa, in onore della Santa, a San Benedetto, nel suo quartiere delle Pagliarelle.
Egli comincia a darsi da fare per realizzare quanto ha pensato di  fare. Nella ricerca del suolo dove costruire la chiesa, nell’interno del quartiere, non ci sono scelte da fare.
L’unica area disponibile è all’inizio di Via Romana, parallela nella prima parte di Via dei Sacerdoti e a pochi passi dal Vicoletto della Chiesa e degli antichi luoghi benedettini.
Intanto Giovanni ha iniziato la raccolta di fondi. E’ da pensare che nessuno, a San Benedetto e in alcuni paesi vicini abbia negato un contributo, anche modesto, per la costruzione della nuova chiesa da dedicare a Santa Maria Goretti.
Dopo poco tempo nasce a san Benedetto una nuova chiesa, seconda dopo quella parrocchiale.
E’ una chiesa piccolina, sia per la non grande area disponibile su cui è costruita, sia per non spendere di più delle somme raccolte (Fig 24 in Appendice).
La piccola chiesa sarebbe stata adatta per i 200 abitanti del quartiere delle Pagliarelle nel 1788. Ora la popolazione era cresciuta di molto.
A ben guardare, però, l’importanza di una chiesa non deriva dalla superficie che occupa, ma da quello che rappresenta, da quello che ispira a chi vi entra.
Quel piccolo luogo di culto è diventato un Santuario.
Ai non Sambenedettesi possiamo dire: per rendersi conto dell’importanza di quella chiesetta è sufficiente una visitina a San Benedetto nelle festività dell’ultima domenica del mese di agosto.
Per chiudere questa prima parte, possiamo immaginare che, quando le due piccole campane hanno fatto sentire per la prima volta i loro festosi rintocchi, quel suono è stato di certo ascoltato dai tre protagonisti della nostra storia: don Angelo Maria, Ninuccio e Andrea.

         

 

 

 

*********** PARTE SECONDA ************

UN MONITO DI SCOMUNICA

Nel 1788 l’economo-curato di San Benedetto don Angelo Maria, nel colloquio con Andrea e Ninuccio, come abbiamo raccontato nella prima parte, aveva espresso la sua soddisfazione perché tutti gli abitanti del villaggio, legati fra di loro da intenso amore per il paese natio, formavano come una sola famiglia.
Aveva accennato anche al fatto che certi dissapori non erano mancati, ma più nell’interno di una stessa famiglia che non di una famiglia contro l’altra.
Di questo ultimo fatto avrei voluto saperne di più e la curiosità mi ha spinto a cercare e a tentare di trovare una risposta a questi interrogativi:
    -   a quali dissapori si riferiva don Angelo Maria?
- l’economo-curato, che delle vicende del villaggio sapeva tutto, a quale famiglia si riferiva particolarmente con le sue parole?
- don Angelo si riferiva veramente alla famiglia di Andrea per un fatto capitato nella stessa tre anni prima, nel 1785?
La parola dissapore può avere vari significati: screzi, litigi, rancori, crucci, tutti di senso negativo.
Dissapori, però, nell’interno di una stessa famiglia vuol dire soprattutto rottura dell’armonia dei rapporti tra i componenti della stessa.
Qualche volta la rottura è tale che non c’è modo di arrivare ad una pacifica e condivisa soluzione.
Non rimane così che il ricorso all’autorità giudiziaria dello Stato o anche, nel tempo della nostra storia e per alcune questioni, all’autorità religiosa.
Quei ricorsi potevano aver lasciato qualche traccia negli Archivi sia Statali che Diocesani.
Nella ricerca mi si è offerta una sola possibilità, quella di frugare tra le vecchie carte dell’epoca esistenti nell’Archivio Diocesano di Avezzano.
E la fatica non è stata vana.
In un documento di una decina di pagine scritte parte in latino e parte in italiano, con alcune parole illeggibili perché coperte da inchiostro e certamente mancante di altri fogli, ho trovato la risposta a tutti i miei interrogativi.
Il dissapore nell’interno di una stessa famiglia, a cui don Angelo aveva accennato, era da riferirsi ad un fatto verificatosi proprio nella famiglia di Andrea nel mese di dicembre dell’anno1785.
Il fatto in sé, come vedremo più avanti, non meriterebbe di essere considerato memoria del passato, perché antico quanto l’uomo e destinato a scomparire quando scomparirà l’uomo.
Noi, però, di quella vicenda della famiglia di Andrea dobbiamo occuparci, perché essa è inquadrata in un contesto che, a buon diritto, può essere considerato memoria del passato, in generale, e, in particolare, anche memoria del nostro passato.
Mi sto riferendo al modo con il quale, in quei tempi, il cittadino che aveva subito un certo danno e non riusciva a conoscerne l’autore, per ottenere giustizia si rivolgeva al vescovo della Diocesi, affinché emettesse un ‘Monitorio di Scomunica’.
Il Monitorio (che significa ammonimento, avviso) era una lettera con la quale l’autorità ecclesiastica minacciava una scomunica a chi, a conoscenza dei fatti denunciati, non palesava quello che sapeva.
La scomunica, sappiamo, è la pena, naturalmente per chi è battezzato, della esclusione dalla comunità dei fedeli e dal ricevere i Sacramenti.
Ma cerchiamo di capirne di più dalla vicenda della famiglia di Andrea che ebbe inizio ai primi di dicembre dell’anno 1785.
Anzitutto l’elenco dei personaggi:
- funzionari della Curia di Pescina;
- don Angelo Maria, economo-curato di San     Benedetto;
- Andrea;
- Giovanni, padre di Andrea;
- Sinforosa, sorella di Andrea, sposata;
- Clementina, sorella di Andrea, nubile;
- Cesidio, pescinese, marito di Sinforosa;
- i testimoni;
- due barcaioli;
- una donna di Trasacco, detta ‘la Zingaretta’.
Ed ecco, in breve, i fatti che hanno provocato la richiesta di Andrea all’autorità religiosa per un monitorio di scomunica.
Il primo dicembre dell’anno 1785 muore Giovanni, padre di Andrea, che, informato, si reca subito nella casa paterna.
Entrato, Andrea rimane turbato non solo per la morte del genitore, ma anche perché nella casa non ci sono più i mobili più preziosi, biancheria, oggetti d’argento e d’oro, monete.
Forse, pensa Andrea, le sorelle Sinforosa e Clementina e il cognato Cesidio hanno nascosto altrove la roba mancante.
Questo perché, in quei tempi, il giorno stesso della morte, un funzionario dello Stato si recava nella casa del defunto per compilare l’elenco dei beni che in essa si trovavano. Naturalmente per scopi fiscali.
La realtà, però, era ben diversa: di quegli oggetti scomparsi dalla casa nessuno sapeva o voleva dire qualche cosa.
Di qui il ricorso di Andrea all’autorità religiosa.
Ma, d’ora in poi, facciamo parlare quelle carte scritte in San Benedetto 225 anni fa e che anche noi, oggi, possiamo leggere.
In una lettera del 10 dicembre 1785, al vescovo Francesco Vincenzino Lajezza in Pescina, l’economo-curato di San Benedetto don Angelo Maria comunica di aver ricevuto da Andrea una supplica, con in calce il decreto della Eminentissima Curia Episcopale dei Marsi.
Ed ecco la supplica di Andrea che viene trascritta integralmente, anche nella punteggiatura, negli accenti e con gli errori di ortografia.
Sono state, invece, tradotte nella loro effettiva lunghezza le numerose abbreviazioni altrimenti incomprensibili.
“Andrea… della Villa di San Benedetto diocesano di Vostra Signoria Illustrissima e reverendissima divotamente Le rappresenta; come pochi giorni sono passò da questa all’altra vita il fù Giovanni suo padre da cuj per volontà del medesimo viveva separatamente in diversa casa e distinta famiglia, e comeché à sospetto siano trafugati non solo mobili più preziosi ereditari paterni, m’anche oro e argento, monetato, e rispettivamente lavorato, per così far rimanere, pregiudicato ed in danno esso supplicante, cuj per diritto civile spetta del paterno asso, per quando (sic) siasi il supplicante industriato per sapere qualche cosa, non è stato possibile sapere cosa veruna comechè preme al supplicante; chi forse tenerrà occupato detti beni per la divisione facienda per farne uso nella causa civile.
Per tanto ne ricorre a Vostra Signoria Illustrissima e Reverendissima e la supplica ordinare al Reverendo Economo Curato di essa Villa, che fra la Messa solenne publica (sic) monitorio di scomunica sopra l’infrascritto capo acciocché chi li tiene, li debba restituire, e chi lo sà lo debba rivelare, e chiunque sapesse o avesse inteso dire che nel giorno della morte del fù Giovanni… suo padre, stando il Mastrodotti di persona di essa regal Corte àccompilare l’ammontamento dei beni si fossero trafugati, danaro, oro, biancaria, ed altri mobili di esso suo padre in casa terza per non farli annotare, chi l’avesse veduto o inteso dire debba rivelare la quantità e la qualità, ed in casa di chi, sotto pena di scomunica.”
Andrea, come abbiamo annotato nel capitolo 6 della prima parte, era uomo di una certa cultura.
In un periodo della nostra storia in cui quasi tutte le persone firmavano i documenti con un segno di croce perché analfabete, Andrea sapeva leggere e scrivere. La supplica al vescovo egli l‘ha scritta di suo pugno, anche se essa risulta qua e là di difficile lettura e interpretazione.
Andrea, però, ha fatto capire bene quello che era successo nella sua famiglia alla morte del padre e ancora quello che chiedeva all’autorità religiosa, cioè l’ordine all’economo-curato di San Benedetto di rendere pubblico in chiesa, durante la Santa Messa festiva, il monitorio di scomunica.
Con lettera del 7 dicembre 1785, il Vicario generale della Diocesi dei Marsi comunica all’economo-curato di San Benedetto che dovrà:
- durante la Messa in tre giorni festivi “di precetto”, ma non delle feste più solenni, come quella dell’imminente Santo Natale, comunicare al popolo radunato in chiesa il contenuto della supplica di Andrea e l’ammonimento di scomunica per chi sa e non rivela;
- raccogliere per delega eventuali rivelazioni da testimoni;
- trasmettere alla Curia Episcopale di Pescina tutta la documentazione “chiusa e munita di sigillo”.
In una di quelle dieci pagine don Angelo Maria attesta, in latino, di aver pubblicato nella Chiesa “Parrocchiale” di San Benedetto tutto quanto esposto nella supplica di Andrea e “prima di ogni cosa era stato fatto il monitorio nei giorni 11 e 18 dicembre 1785 e l’8 gennaio 1786”.
Abbiamo messo tra virgolette la parola “Parrocchiale”. E’ vero che in questa attestazione l’economo-curato don Angelo Maria scrive ”In Ecclesia Parochiali S. Benedicti” (nella chiesa parrocchiale di San Benedetto), ma è bene ricordare che allora san Benedetto non aveva una sua parrocchia.
I Sambenedettesi, ormai da due secoli, erano parrocchiani della Cattedrale di Santa Maria delle Grazie in Pescina. Dovranno passare ancora tre anni, come abbiamo già visto, prima che i bambini di San Benedetto possano essere battezzati nel loro paese natio. Ci vorranno, però, ancora 120 lunghi anni prima che, nel 1905, San Benedetto, tra i più grandi paesi della Marsica con i suoi 4200 abitanti, possa avere la sua parrocchia.
Ma torniamo a don Angelo Maria: un grande e intenso lavoro lo attende. Sono, infatti, numerosi i “testimoni” che vengono a fare le loro “rivelazioni”.
Vediamo come si svolgevano queste rivelazioni, prendendone in esame qualcuna.
Il primo a presentarsi davanti all’economo-curato, il 20 dicembre 1785, è Francesco Del Moro, un sambenedettese di 36 anni.   

Don Angelo Maria lo ammonisce sulla gravità del giuramento, poi gli chiede: “Per quale motivo ti trovi davanti a noi?” e Francesco: ”Per due volte ho inteso pubblicare da V.S. in chiesa monitorio di scomunica, affinché chiunque sappia da chi sono stati trafugati dalla casa del fù Giovanni danaro, oro, argento e altra roba lo debba rivelare, onde io, sapendo qualche cosa, sono venuto a rivelarlo a V.S.”.
Dopo questa risposta don Angelo Maria “ingiunge a Francesco di dire quello che ha visto”.
“Io niente so e niente ho visto trafugare dalla casa del fù Giovanni” è la risposta di Francesco, che aggiunge: ”Io debbo restituire alla famiglia del defunto una vela nuova quadra del peso di cinque libbre per uso delle barche del Fucino, perché l’anno passato mi fu data in prestito da Cesidio e ancora non ne ho restituito una simile.”
Il 31 dicembre 1785 si presenta da don Angelo Maria il trentenne sambenedettese Andrea Raglione. Il colloquio si svolge con le modalità che già conosciamo.
Riportiamo solo la parte centrale della rivelazione:
“Sig. Curato, sono venuto a rivelare a V.S., perché ho inteso il monitorio di scomunica: Cesidio di Pescina, ma (ac)casato con la figlia del fù Giovanni, e propriamente chiamata Sinforosa, affittò nell’està(te) scorsa mezza salma di canapina al Rev. Can. Don Pasquale Ciofani, mio zio, di Trasacco, al prezzo di ducati sette senza scrittura, ed io ci ho passato di mezzo, e detti ducati sette sono stati al Cesidio pagati prima la festa di Tutti i Santi.”
Precisiamo che:
1) Cesidio poteva solo subaffittare terreni che non erano di sua proprietà, ma appartenenti al beneficio ecclesiastico della Madonna di Venere.
2) ‘Salma’ era un’antica misura di superficie, di valore diverso secondo i vari luoghi. Per esempio a Palermo (che come San Benedetto apparteneva al Regno delle Due Sicilie) la salma corrispondeva ad una superficie di 174,72 are, cioè a metri quadrati 17472. La mezza salma subaffittata da Cesidiio a don Pasquale era un terreno di 8736 metri quadrati.
3) ‘Canapina’ era detto il terreno dove era possibile coltivare la canapa, in genere vicino a corsi d’acqua.
Nelle due testimonianze riportate e in altre dello stesso tenore non c’è nulla che possa aiutare Andrea nella ricerca dei beni scomparsi dalla casa del padre.
Ed ecco un’altra testimonianza, che, apparentemente, dice meno delle altre, ma si presta ad interpretazioni che aprono uno spiraglio nella vicenda. Vi sono coinvolti Clementina, sorella di Andrea, due barcaioli e la Zingaretta di Trasacco.
Il lavoro di don Angelo Maria si sta rivelando veramente duro e intenso: non era fatica da poco ricevere i testimoni, spiegare la gravità del giuramento, ascoltare e capire le rivelazioni e, soprattutto, stendere il verbale da scrivere in latino per quel che riguarda, diciamo così, la parte burocratica e in italiano le testimonianze.
L’economo-curato aveva chiuso l’anno 1785 ricevendo le testimonianze di Andrea Raglione e, dopo che questi aveva “firmato” il verbale con un segno di croce, pensava tra sé: “Neppure il giorno di San Silvestro mi sono potuto riposare, ma domani, festa di Capodanno, dopo le funzioni religiose, voglio dedicare il resto della giornata alla distensiva lettura di un libro.”
Così pensava don Angelo Maria, ma …..
Ecco il primo giorno dell’anno 1786.
Il barcaiolo Cesidio Bajardi viene da don Angelo Maria per “scaricare la sua coscienza”, non tenendo conto che il Capodanno è, per tutti, una grande festa.
Dopo le rituali ammonizioni ed il giuramento, Cesidio Bajardi fa la sua rivelazione:
“In sequela de’ monitori di scomunica da V.S. pubblicati in chiesa vengo a rivelare, per discarico di mia coscienza, come dieci giorni prima della morte del fù Giovanni, mio paesano, dovendo assieme con Berardo Di Genua portarmi a Trasacco per barca, prima di imbarcarci, venne da noi una donna della detta terra di Trasacco di cui nò sò il nome, ma viene sopra nomata la “Zingaretta” e ci disse di ripassarla, ma noi nò volevamo perché la barca andava carica assai, e ci si fece a pregare e ci disse che era venuta (a San Benedetto) a prendere da Cesidio, genero del fù Giovanni, certo granetto, che di fatti Clementina, figlia del fù Giovanni e cognata di Cesidio, portò dentro un sacco legato, e lo pose al capo della nave, e la prefata Zingaretta soggiunse che erano quattro coppe, per cui darebbe al Cesidio tanto stabbio…. .”
La rivelazione del barcaiolo ha bisogno di essere interpretata. Egli racconta quello che ha visto e sentito dire. Cesidio Bajardi vuole rivelare a don Angelo Maria che una donna di Trasacco è venuta a San Benedetto in casa del fu Giovanni per comperare del granetto per le sue galline, ma non l’ha pagato. Pagherà in seguito con lo stabbio. Ora noi dobbiamo togliere dalla rivelazione del barcaiolo quello che è certamente inverosimile e cercare di capirne il significato nascosto.
Per capire meglio ecco il significato di due espressioni della parlata locale.
Il “granetto” potremmo chiamarlo lo scarto del grano, formato da piccoli chicchi non giunti a maturazione o da chicchi spezzati, frantumati durante la battitura per separare il grano dalla pula.
La parola granetto è un po’ la forma italianizzata, fatta da don Angelo Maria nello stendere il verbale, dell’espressione dialettale “ranétte”.
La “coppa” è una parola locale per indicare una misura di capacità (corrispondente a 11 kg di cereali).
Premettiamo che la famiglia del padre di Andrea gode certamente di un certo benessere. Tra le carte ci sono testimonianze dei loro garzoni. La barca carica e pronta a partire per Trasacco è di loro proprietà.
E’ sicuramente inverosimile che Cesidio, marito di Sinforosa, abbia venduto quattro “coppe” di granetto alla Zingaretta, abbia messo il tutto dentro un sacco, che poi, del peso di 44 kg, viene caricato sulle spalle della cognata Clementina per portarlo al porticciolo e scaricarlo sulla barca.
Una fatica che neppure un uomo robusto avrebbe potuto sopportare.
Allora perché è Clementina a portare quel sacco sulla barca? Che cosa c’era dentro quel sacco? Certamente non il granetto, ma qualche cosa di più leggero, ma anche di più prezioso da affidare alla Zingaretta di Trasacco per motivi che non conosciamo, ma che possiamo immaginare.
Quella donna era esperta nel comperare e nel vendere, come suol dirsi, in conto terzi. E il suo mestiere sapeva farlo molto bene.
Chiudiamo le testimonianze con la rivelazione in data 6 gennaio 1786 di Baldassarre Parisse, ventenne pescinese: la riportiamo interamente:
“Io stò per garzone alla casa del fù Giovanni di questa Villa, ed in seguito de’ monitorj di scommunica (sic) da V.S. fatti in chiesa, mi occorre rivelargli un fatto.”
Don Angelo Maria dice a Baldassarre “che riveli cosa sappia con tutte le sue circostanze”.
Continua Baldassarre: “Ha da sapere V.S. che Cesidio genero del prefato quondam (= fu) Giovanni in una notte che nò mi ricordo, assieme alla cognata Clementina, figlia del ridetto quondam Giovanni, trasportò dalla stalla contigua alla casa una porta di pietra di pezzi nove all’altra stalla confinante colli signori Sclocchi di Pescina, in dove si conserva attualmente coverta con dello strame e detta porta non fu vista nel tempo si fece l’inventario perché era celata da certo cànape, che esisteva nell’anzidetta stalla contigua alla casa; e questo lo so, perché io come garzone l’avevo più volte veduta detta porta e viddi (sic) ancora, quando fù trasportata, anziché prestai la mia opera in ajutare li suddetti Cesidio e Clementina.”
La testimonianza del garzone Baldassarre è nell’ultima pagina delle carte che abbiamo consultato.
Con ogni probabilità altri fogli sono stati dispersi.
Il raccontare la triste vicenda della famiglia di Andrea ci ha fatto conoscere quello che, a buon diritto, può considerarsi memoria del passato, cioè che cosa era e come funzionava il monitorio di scomunica.
Qui potremmo mettere la parola fine, ma la “curiosità” ci pone altri interrogativi.
Noi li registriamo, ma ad essi non possiamo e non sappiamo dare una risposta.
1) Il cognato di Andrea, Cesidio, e le sorelle Sinforosa e Clementina, indubbiamente protagonisti e responsabili della sparizione dalla casa paterna di tutti quei beni, si sono o non si sono presentati a testimoniare da don Angelo Maria?
2) Il monitorio di scomunica non valeva forse anche per loro?
3) Andrea, per effetto del richiesto monitorio di scomunica, ha avuto la possibilità di recuperare, almeno in parte, la quota spettantegli dei beni paterni scomparsi?
4) Andrea ha dovuto far ricorso all’autorità civile, cioè intentare una causa contro cognato e sorelle?
In questa seconda parte non figura mai il nome di Ninuccio: egli, però, è stato certamente vicino con i suoi saggi consigli al compare Andrea nel periodo più triste della sua vita.
Abbiamo raccontato la storia dei due compari andando a ritroso nel tempo: 1799, 1788, 1785.
Ora torniamo all’inizio del nostro racconto, all’ultimo anno della loro vita: molto serena quella di Ninuccio, con qualche dissapore con i propri parenti quella di Andrea.
Essi lasciano questo mondo a distanza di cinque giorni l’uno dall’altro.
Negli ultimi tempi della malattia le figlie di Ninuccio, Celeste e Nunzia, si alternavano al capezzale del padre e a quello del compare Andrea.
In quei tempi facevano anche questo le famiglie dei compari di San Giovanni.

                                                
   
 

************ APPENDICE *************

Figura 1 : LE DIECI LENZE DEI CANONICI

Figura 2 : I TRE RAMI DEL FIUME GIOVENCO

Figure 3 e 4 : LE VIE DELLA NOSTRA STORIA

Figure 5 e 6 : VIA DEI SACERDOTI

Figure 7 ed 8 : VICOLETTO DELLA CHIESA

Figure 9 e 10 : VIA DEI BENEDETTINI

Figure 11 e 12 : VIA FOSSO DEI FRATI

Figura 13 : CHIESA EVANGELICA IN VIA DIAZ

Figura 14 : TREVISO  –  PONTE DANTE (“DOVE SILE E CAGNAN S’ACCOMPAGNA”)

 

Figura 15 : FRONTESPIZIO DEL LIBRO DI VIBIO SEQUESTRE

Figura 16 : LA PAGINA DEL LIBRO CON LA CITAZIONE DEL LAGO FUCINO

Figure 17 e 18 : LE PIETRE….SUPERSTITI DEI LUOGHI BENEDETTINI

Figure 19 e 20 : VIA DELLA CERTOSA

Figura 21 : VIA MOLISE

Figura 22 : MONETAZIONE DELLA GUERRA SOCIALE

Figura 23 : MONETA “DEGLI OTTO CHE GIURANO”

Figura 24 : CHIESA DI SANTA MARIA GORETTI

 

 

 

*BIBLIOGRAFIA*

PARTE PRIMA

• Romanelli Domenico: “Antica topografia istorica del Regno di Napoli”                                               - parte terza – Napoli: nella Stamperia Reale – 1819

• “Giornale araldico di Scienze, Lettere ed Arti” tomo CLXXIV - Roma – Tipografia delle Belle Arti – 1864

• Riccardo da San Germano: “Chronaca” – Notizie storiche della Contea di Celano (1191-1241) – edizione italiana a cura di C.A. Carufi – Bologna - 1937

• Vibio Sequestre (IV sec. D.C.): opera in latino “Sui fiumi, fonti, laghi, boschi paludi, monti e genti dei quali si fa menzione presso i Poeti” da una edizione, in originale latino, del 1778

• R. Garducci: “Le monete dell’Italia antica” - Roma – 1885

• P. Virgilio Marone: “Eneide” – c.VII, vv. 750-756

• Dante Alighieri: “Paradiso” – c. IX, v. 49                                                                     

• dalla documentazione esistente nell’Archivio Storico Diocesano di Avezzano (A. S. D. A):
- fondo C busta 32  foglio 794 anno 1778
    - fondo C busta 71  foglio 1367 anno 1816
    - fondo D busta 226 foglio 351 anno 1788
    - fondo B busta 57  foglio 197 anno 1873

PARTE  SECONDA

Dall’Archivio Storico Diocesano di Avezzano:
                 - fondo C busta 52 foglio 1086 anno 1785

 

 

 

* INDICE *

PARTE PRIMA

Capitolo  1 : Compari di San Giovanni.
Capitolo  2 : Una storia quasi dimenticata.
Capitolo  3 : Come e perché è nata questa storia.
Capitolo  4 : Come far rivivere una storia quasi dimenticata tra antichi ricordi e luoghi del presente.
Capitolo 5 : Anche le acque tra le memorie del nostro passato
Capitolo  6 : Un problema da risolvere in tre nel ricordo di pagine liete e pagine tristi della nostra storia.
Capitolo  7 : Una moneta memoria del nostro passato.
Capitolo  8 : Le conclusioni di Andrea.
Capitolo  9 : La proposta di don Angelo Maria.
Capitolo 10 : Futuro tra speranze e realtà.
Capitolo 11 : L’antico sogno dei Pagliarellesi diventa realtà.                                                         

PARTE SECONDA

- Un monitorio di scomunica.

APPENDICE


BIBLIOGRAFIA