DALLA CIVITAS VALERIA AL NUOVO COMUNE DI SAN BENEDETTO DEI MARSI

                                                                                                Ad Elisa,

                                                                                                da sessanta anni

                                                                                                compagna fedele e paziente

Prefazione

E’ bello, ma anche necessario, conoscere la storia del paese dove si è nati.
Della storia del mio paese natìo, San Benedetto dei Marsi, si potrebbe dire molto di quando, più di 2000 anni fa, si chiamava Marruvium, la Capitale dei Marsi, amica fedele di Roma dopo che i Romani avevano scoperto che nulla si poteva fare “né contro i Marsi né senza i Marsi”. E ancora di quando, distrutta Marruvio nel 445 e ricostruita sei anni dopo, prese il nome di Valeria, capo della Diocesi dei Marsi, la splendida città che si specchiava nelle limpide acque del lago Fucino.
Non sono questi due gloriosi periodi della nostra storia ad interessare particolarmente questo mio modesto contributo alla conoscenza di alcune vicende del nostro paese degli ultimi tre-quattro secoli.
Mi riferisco alla storia della lotta per l’autonomia di San Benedetto da Pescina, autonomia prima anche di carattere religioso, poi, nella prima metà del Novecento, solo di carattere politico-amministrativo.
La dipendenza di San Benedetto da Pescina ha una data iniziale: il 1°  gennaio 1580, quando fu autorizzata da Papa Gregorio XIII la traslazione della sede vescovile dall’antichissima Cattedrale di Santa Sabina alla nuova Cattedrale di Santa Maria delle Grazie. E anche una data finale: il 7 settembre 1945, quando fu istituito il nuovo Comune di San Benedetto dei Marsi.
Una lunga storia di ben 365 anni!
Un antico proverbio ammonisce che “Il presente dipende dall’ieri”, dal passato. E così il mio iniziale proposito di rendere una testimonianza scritta, per conoscenza diretta, sugli avvenimenti che, nella fase finale della lotta per l’autonomia di San Benedetto da Pescina, portarono alla storica conquista del 7 settembre 1945, ha trovato il suo necessario completamento nel riandare ad un passato lontano. Cosa che è stata possibile realizzare mediante un lungo periodo di ricerca e di consultazione di carte e documenti esistenti nell’Archivio Diocesano di Avezzano.
Non si ha la pretesa di aver trovato e consultato tutto quanto riguarda San Benedetto in tale contesto storico.
A dire il vero, non sono molte le notizie che riguardano il nostro paese.
Gli abitanti di San Benedetto per più di tre secoli, fino al 1905, sono stati parrocchiani della Cattedrale di Santa Maria delle Grazie in Pescina. Come paese senza una propria parrocchia, San Benedetto non figura quasi mai negli annuali elenchi, con relative notizie sullo stato della popolazione, dei paesi della Diocesi dei Marsi.
In un documento del 1788 è detto che “le popolazioni di Pescina e San Benedetto hanno sempre formato e dovranno continuare a formare un corpo, una università e una stessa parrocchia sotto la cura di un solo parroco, il Canonico-curato di Santa Maria delle Grazie”.
Quasi con le stesse parole, questa circostanza troviamo espressa anche in un documento del 1866.
San Benedetto, in poche parole, è completamente “assorbita” da Pescina.
E questo ci fa capire quanto è stata lunga, difficile e dura per San Benedetto la lotta per la liberazione dalla pesante tutela di Pescina.
Da queste considerazioni l’idea di mettere insieme, in ordine cronologico, tutte le notizie che è stato possibile recuperare per la storia del nostro paese.
A leggerle attentamente, quelle notizie ci appaiono come una cornice del quadro d’insieme di una storia (dipendenza di San Benedetto da Pescina) che iniziò il 1° gennaio 1580 ed ebbe termine il 7 settembre 1945.

                                         

                                                                                                                                         Sebastiano Simboli

Avezzano, agosto 2008

***** INDICE *****


- PREFAZIONE

- PARTE PRIMA
Cap. 01  –  Conoscere la Storia
Cap. 02  –  Anni 1545-1563
Cap. 03  –  Anno 1567, giorno 11 del mese di luglio (C2/38)
Cap. 04  –  Anno 1580: la traslazione
Cap. 05  –  Anno 1587: la commovente storia di Fra Geronimo da Goriano (C4/103)
Cap. 06  –  Valeria e il Molino di Civita (C18/442)
Cap. 07  –  Martedì 1° novembre 1633, ore 20
Cap. 08  –  Anno 1681: l’asporto delle sacre pietre (C13/325)
Cap. 09  –  La popolazione di San Benedetto nel Settecento (C32/724)
Cap. 10  –  Nel corso del Settecento a San Benedetto nascono “Le Pagliarelle”
Cap. 11  –  Anno 1788: una prima, modesta, ma significativa conquista: il Battistero (D226/351)
Cap. 12  –  … ma per la parrocchia ci vorrà ancora più di un secolo
Cap. 13  –  Anno 1873: chi deve pagare l’Economo-curato di San Benedetto? (C90/2163)
Cap. 14  –  Anno 1873 e seguenti: la chiesa di Santa Sabina ha bisogno di riparazioni.
Intervento della   Confraternita di S. Vincenzo Ferreri (C86/1960)
Cap. 15  –  San Benedetto da villaggio allo “splendore di una popolosa città” (B57/197)
Cap. 16  –  Un antico quadro di Santa Sabina in Santa Maria delle Grazie a futura memoria
Cap. 17  –  Perché San Benedetto non può avere la parrocchia (D237/1097)
Cap. 18  –  Anno 1905: finalmente la parrocchia (B24/78)

- PARTE SECONDA:

Cap. 19  –  Prima metà del Novecento: le lunghe lotte per l’autonomia comunale
Cap. 20  –  1907-1908: gli anni della grande delusione
Cap. 21  –  15 giugno 1908: il giorno della grande delusione
Cap. 22  –  1914-1915: gli anni della speranza infranta
Cap. 23  –  Anni Venti e Trenta: gli anni dei comandanti unici e della lunga stasi
Cap. 24  –  1944-1945: gli anni della storica conquista
Cap. 25  –  San Benedetto negli anni 1944-1945
Cap. 26  –  17-01-1945: la festa di Sant’Antonio
Cap. 27  –  La lotta per l’Autonomia Comunale
Cap. 28  –  La lunga seduta del 22 maggio 1945
Cap. 29  –  Il mese di luglio a San Benedetto
Cap. 30  –  7 settembre 1945: una data da non dimenticare 

*******PARTE PRIMA*******

CAPITOLO 1 : CONOSCERE LA STORIA

Qualunque evento storico, di grande o di piccola portata, di interesse universale o, semplicemente, locale, per rimanere tale ha bisogno di essere recepito dalla coscienza collettiva.
Qualunque evento storico che non è stato recepito o è stato cancellato dalla coscienza collettiva è come se non fosse mai esistito.
Nel 1945, in San Benedetto dei Marsi, si verificò un avvenimento di grande portata storica, grande almeno per i Sambenedettesi: San Benedetto dei Marsi, frazione del Comune di Pescina da 365 anni, divenne Comune autonomo.
Da allora sono passati più di sessanta anni e di quell’avvenimento, dei fatti e delle circostanze che portarono all’evento storico ben poco è rimasto nella memoria dei Sambenedettesi. E non poteva essere altrimenti, visto che dal 1945 al 1995, per cinquanta anni, non ci sono mai stati una commemorazione, mai una festa, mai un ricordo di quella storica conquista. E chi ha preso parte alla commemorazione del 1995 e, dieci anni dopo, a quella del 2005, ha avuto la netta sensazione che quel ricordo va sempre più affievolendosi, come una fiammella alimentata dalle ultime gocce di cera. Perché la fiammella non si spenga del tutto, ma torni, invece, a brillare, è necessario che quella storia sia raccontata da chi l’ha intensamente vissuta in prima persona.
Raccontare una storia non è sempre una cosa facile.
Ma che cosa è la Storia?
Più di duemila anni fa, quando nella più bella città della Marsica i Marruviani (i sanbenedettesi di allora) dormivano sugli splendidi pavimenti a mosaico che vengono qua e là alla luce in occasione di scavi, a Roma Marco Tullio Cicerone, una delle più grandi personalità della cultura latina e della vita politica romana, così definiva la Storia: ”La Storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria e maestra della vita.”
Per questo la Storia non può e non deve mai essere dimenticata: sappiamo che, se vogliamo conoscere la civiltà di un popolo, dobbiamo conoscerne prima di tutto la storia.
Si può aggiungere ancora che le parole “storia” e “storico” hanno la stessa radice di un verbo della lingua greca (‘orao’) che significa “vedere”.
Storia, dunque, è narrazione, testimonianza di fatti “visti” e storico è, soprattutto, colui che ha visto, perciò un testimone.
E poiché la Storia è “testimonianza dei tempi e luce di verità”, si vuole qui rendere testimonianza di fatti che resero possibile la realizzazione di un sogno dai Sambenedettesi accarezzato da molto tempo: lo storico evento del 7 settembre 1945.
Ma da dove cominciare?
Un noto proverbio, relativo al significato della parola ‘tempo’, dice: ”il presente dipende dall’ieri e il futuro è frutto del passato”. Se vogliamo, perciò, capire il presente, si devono fare necessari riferimenti al passato e chi azzarda previsioni sul futuro non può non tener conto del passato. In altre parole, tra gli eventi, tra i fatti nei tre momenti della durata effettiva del tempo (passato, presente, futuro), c’è sempre una certa connessione, una certa interdipendenza, un legame quasi di parentela.
Tornando al nostro caso, se vogliamo renderci adeguatamente conto della portata storica di quanto avvenne il 7 settembre 1945, dobbiamo riandare con la mente al passato, ad un passato molto lontano, ad un passato di 365 anni prima
Quanti eventi, spesso disastrosi, quante sofferenze, quante delusioni e quante umiliazioni per San Benedetto in quei 365 anni!
Oggi, purtroppo, di molto di quel passato si è perso il ricordo. Il tempo, sappiamo, è come la ruggine: corrode, distrugge, cancella. Quel poco che è possibile recuperare alla nostra memoria è, però, sufficiente per illuminare sotto alcuni aspetti il lungo cammino che portò alla storica conquista del 7 settembre 1945.
La Storia è anche luce di verità: cerchiamo di trovare qualche sprazzo di quella luce in una data, in un documento.  

CAPITOLO 2 : ANNI 1545 - 1563

A Trento si svolge il grande Concilio della Controriforma.
Tra le varie disposizioni conciliari ci sono.
- l’obbligo per i vescovi di risiedere nella sede della Diocesi:
- l’obbligo di costruire, nelle sedi delle Diocesi, Seminari per una più adeguata preparazione religiosa e culturale degli aspiranti al sacerdozio.
Nella sede della Diocesi dei Marsi, a S. Benedetto appunto, ci sono la splendida Cattedrale di Santa Sabina e l’Episcopio, cioè la casa del vescovo, con annessi locali per gli uffici pastorali. Non c’è, però, il Seminario.

CAPITOLO3 : ANNO 1567, GIORNO 11 DEL MESE DI LUGLIO

Il Capitolo, cioè tutti i canonici della Cattedrale di Santa Sabina, è riunito per i provvedimenti necessari alla costruzione del Seminario, secondo quanto prescritto dal Concilio tridentino.
C’è accordo sul fatto che il Seminario non debba essere costruito a S. Benedetto, c’è disaccordo sulla scelta della nuova sede.
I canonici di Celano e di Cerchio sono per la costruzione del Seminario in Celano; gli altri canonici, che prevalgono, sono per la sede di Pescina.
Perché a Celano o a Pescina e non nella sede della Diocesi, a S. Benedetto, che allora si chiamava “Valeria”?
La Cattedrale di Santa Sabina era lì, intatta in tutto il suo splendore, in tutta la sua maestosità e sotto l’altare maggiore riposavano, da più di quattrocento anni, le spoglie del suo vescovo San  Berardo (1113-1130).
La città, però, ha un aspetto desolante: terremoti, inondazioni delle confinanti acque del lago Fucino, il passaggio di eserciti mercenari stranieri alla ricerca di bottino, incursioni di vicini potentati ne hanno cambiato il volto.
La maggior parte degli abitanti ha lasciato le proprie case semidistrutte e si è trasferita nelle sedi più sicure di Pescina e di Venere.
Le autorità religiose pensano di poter svolgere meglio la propria missione pastorale da un luogo più sicuro. E così anche il Vescovo e il Capitolo si trasferiscono a Pescina.
Rimane, però, il problema della residenza del Vescovo nella sede della Diocesi: non c’è altra soluzione che quella di far trasferire a Pescina anche la sede della Diocesi. Ne viene fatta richiesta al Papa e si resta in attesa della decisione pontificia.

CAPITOLO 4 : ANNO 1580. LA TRASLAZIONE

E la decisione del Papa Gregorio XIII viene comunicata al Vescovo dei Marsi Matteo Colli il 1° gennaio 1580 con la bolla “In Suprema Dignitatis Apostolicae Specula”, come dire: decisione presa “dal punto più alto della dignità apostolica”, cioè dal Papa.
Papa Gregorio XIII, bolognese, della famiglia Boncompagni, era un grande giurista e illustre professore di Diritto nella Università di Bologna. Trasferitosi a Roma, si era distinto in vari uffici presso la Cancelleria Apostolica e aveva fatto parte del Collegio degli Abbreviatori, cioè di quelli che scrivevano le minute delle lettere e dei documenti pontifici. E come abbreviatore aveva partecipato ai lavori del Concilio di Trento. Gregorio conosceva molto bene, perciò, tutte le disposizioni conciliari.
Eletto Papa nel 1572, ha fama di rigorista nell’applicazione dei decreti di Riforma tridentina, specialmente di quello dell’obbligo della residenza vescovile. Non manca, infatti, di togliere i vescovadi ai vescovi non residenti nella diocesi.
Con la Bolla del 1° gennaio 1580 viene riconosciuta al vescovo Matteo Colli la residenza in Pescina con tutte le attribuzioni e le funzioni proprie del Vescovado, ma non viene cancellata dall’elenco delle diocesi italiane quella della città di Valeria presso la Cattedrale di Santa Sabina.
Ricordiamo che la Diocesi dei Marsi è tra le più antiche, se non addirittura la più antica in Abruzzo.
La Chiesa nella Marsica, infatti, ha origine antichissima, fondata nel 46 d.C. da Marco Galileo, discepolo del primo papa San Pietro, e primo vescovo dei Marsi.
Quando in Pescina la chiesa della Madonna della Neve diviene la nuova Cattedrale di Santa Maria delle Grazie, sull’altare maggiore di questa è posto un quadro di Santa Sabina. Quel quadro molti anni dopo, nel 1885, metterà in crisi Monsignor Enrico De Dominicis, appena nominato vescovo dei Marsi, il quale aveva osservato che “Sull’altare maggiore della Cattedrale è esposto il quadro di Santa Sabina martire, patrona della Diocesi, anziché quello della Madonna delle Grazie, che è il titolo di detta chiesa.”
L’argomento merita approfondimento che sarà fatto più avanti, perché è possibile leggere sia la lettera del vescovo De Dominicis alla Sacra Congregazione dei Riti in data 23 aprile 1885, che la risposta di detta Sacra Congregazione al vescovo dei Marsi in data 7 maggio 1885.
Qui si vuole mettere l’accento sul fatto che, con il provvedimento del 1° gennaio 1580, papa Gregorio XIII indicava anche la provvisorietà della concessione fatta al vescovo dei Marsi per la traslazione della sede in Pescina. Nella Bolla c’era scritto che la traslazione era da ritenersi valida “Donec Civitas et illius Cathedralis Ecclesia denuo restauratae, et ad debitum vel commodum statum redactae fuerint”, cioè “Fino a quando la Città e la Chiesa Cattedrale di quella non saranno state nuovamente restaurate e riportate al dovuto e opportuno stato.”
In breve, una volta ricostruita la città di Valeria, la residenza del vescovo doveva essere riportata in essa.
E forse quel quadro di Santa Sabina sull’altare maggiore di Santa Maria delle Grazie stava ad indicare che non c’era stata rottura tra la nuova sede del vescovado e la Cattedrale di Santa Sabina.  

CAPITOLO 5 : ANNO 1587. LA COMMOVENTE STORIA DI FRA GERONIMO DA GORIANO.

1587: è da alcuni anni che Vescovo, Capitolo della Cattedrale di Santa Sabina, tutto il clero e quasi tutta la popolazione hanno lasciato la semidistrutta città di Valeria per sedi più sicure.
C’è, però, un gruppo di irriducibili che non vogliono abbandonare il luogo natio. Si tratta di pescatori che non intendono cambiare mestiere, lasciando le loro barche da pesca in balia delle acque del lago Fucino; si tratta di pastori che non avrebbero potuto portarsi dietro pecore e capre; si tratta di contadini che coltivano le fertili terre a ridosso del fiume Giovenco.
In tutto alcune decine di famiglie.
Quelle famiglie saranno ‘contate’ una settantina di anni dopo dallo storico marsicano Muzio Febonio, il quale lasciò scritto che quella che era stata la splendida città di “Marruvium” e, in seguito, la splendidissima “Civitas Marsicana” e/o “Civitas Valeria”, la capitale dei Marsi, la patria del Papa San Bonifacio IV e la sede della più antica diocesi d’Abruzzo, era ormai un “Parvus pagus et vile piscatorum tugurium, vix decem familias continens”, cioè un “Piccolo villaggio e un modesto tugurio di pescatori contenente appena dieci famiglie”.
Dieci o decine di famiglie erano pur sempre poca gente, che non doveva, però, essere abbandonata a se stessa e privata anche dell’assistenza religiosa.
Nel 1587, finalmente, dalla Curia di Pescina viene deciso di inviare un sacerdote nel ‘piccolo villaggio’.
Si pensava che solo un frate, vincolato dai voti di povertà e di obbedienza, avrebbe potuto accettare di svolgere una missione molto difficile sotto ogni punto di vista: una vita di stenti tra case diroccate e poca gente dedita a dure fatiche per sopravvivere.
La scelta cade sul frate francescano Fra Geronimo da Goriano. Gli viene promesso che per il suo sostentamento avrebbe ricevuto ventiquattro ducati annui (due al mese) a carico in parte del Capitolo della Cattedrale, in parte dell’abate Silverio, Canonico-Curato in Santa Maria delle Grazie, in parte degli abitanti del villaggio. Gli viene concessa, inoltre per dormire, una stanza nella Cattedrale di Santa Sabina e, all’occorrenza, avrebbe potuto fare la cerca, cioè la raccolta di elemosine.
E così Fra Geronimo parte, a piedi, per San Benedetto, con una bisaccia a tracolla e, in mano, un nodoso bastone per difendersi da eventuali aggressioni di animali.
E’ una splendida giornata di sole, ma un po’ gelida per il soffio della tramontana.
Fra Geronimo arriva a destinazione poco dopo mezzogiorno e si dirige verso la chiesa di Santa Sabina. Il frate cammina con difficoltà tra macerie e case diroccate, disabitate. Un silenzio tombale!
Ad una svolta l’incontro con un cane.
Il frate ringrazia mentalmente Dio per quell’incontro e alza le mani verso il cielo; con la mano destra, però, stringe il bastone e quel gesto impaurisce il cane, che scappa via abbaiando. Fra Geronimo capisce subito il motivo di quella fuga e getta via il bastone.
Arrivato davanti alla chiesa di Santa Sabina, Fra Geronimo si ferma, stupito, ad osservare la bellezza di quel gioiello architettonico. Confesserà più tardi di non aver mai visto una facciata di chiesa così bella.
Entra, quindi, nella Cattedrale e lascia dietro di sé la porta semiaperta.
Anche l’interno della chiesa mostra tutti i segni di una casa abbandonata da anni. Ecco la stanza assegnatagli per dormire. Modestissima la suppellettile: una panca e un giaciglio pieno di polvere.
“Caro Fra Geronimo – dice fra sé e sé il frate – è qui che dovrai spendere molte delle tue energie, per ridare un certo decoro alla casa del Signore.”
Un forte rumore richiama l’attenzione del frate: la porta della chiesa viene completamente aperta da una folata di vento.
Neppure il tempo di liberarsi dalla bisaccia, che porta ancora a tracolla, si affretta verso la porta della chiesa e, con sorpresa, vede il cane che poco prima era scappato via, impaurito dal bastone che il frate aveva involontariamente sollevato in alto. Ora il cane non ha più paura: quell’uomo di Dio gli ispira fiducia, ma non osa ancora entrare in chiesa. Con le zampe anteriori poggiate dritte sull’ultimo scalino, guarda fisso il frate, come se aspettasse un invito ad entrare.
Fra Geronimo rallenta i passi e piano piano si avvicina al cane, ne stringe tra le sue mani la testolina bianca e nera e l’accarezza dolcemente. Il cane mostra di gradire quelle carezze con mugolii sommessi e veloci scodinzolii.
“Povero fratello cane, - dice tra sé Fra Geronimo - come sei sciupato! E chissà che fame hai!” Tira fuori dalla bisaccia l’ultimo pezzo di pane e lo poggia sullo scalino.
Mentre il cane divora il pane, Fra Geronimo va a liberarsi della bisaccia, poggiandola sulla panca della sua stanza.
Intanto il cane, consumato il frugale pasto, entra in chiesa e, fatti pochi passi, si accovaccia sul pavimento con le zampette anteriori distese dritte in avanti. Con la testa poggiata sulla zampa sinistra, segue con i neri occhioni tutti i movimenti del frate.
Prima di uscire, Fra Geronimo si inginocchia su un gradino dell’altare maggiore e invoca la protezione celeste per la missione affidatagli.
Quando pregava, Fra Geronimo non mancava di recitare, come una delle sue preghiere preferite, quel capolavoro poetico della letteratura italiana del Duecento che è il “Cantico delle Creature” di San Francesco di Assisi.
Lo recita per la prima volta dentro la chiesa di Santa Sabina: e da allora, con umiltà e quasi chiedendo perdono al Serafico Padre, aggiungerà sempre una sua strofetta:
                “Laudato sie mi’ Signore per frate Cane,
                  che abbaia, ma è fedele,
                  ce vo’ bene e ce defenne.”

Il frate si alza quasi di scatto e si avvia verso la porta per uscire. Anche il cane balza in piedi ed esce per primo dalla chiesa.
“Fratello cane – dice Fra Geronimo – qui non si vede anima viva. Ma andremo noi alla ricerca.”
Il cane, che guarda fisso il frate, come se avesse capito il significato delle sue parole, di scatto gira la testa verso sud-est.
Il frate, istintivamente, segue lo sguardo del cane, vede del fumo che sale in alto e che il vento disperde verso il lago, e pensa fra sé: ”Se lì c’è il fumo, ci sarà anche il fuoco; e se c’è il fuoco, ci sarà anche chi lo ha acceso e lo alimenta. Andiamo!”
Non c’era una strada diretta che da Santa Sabina portasse al luogo del fumo, che appariva così lontano.
Il frate si muove, seguito dal cane. Un percorso tortuoso senza mai perdete di vista la scia del fumo.
Con l’aiuto dei termini della toponomastica attuale di San Benedetto si può dire che grosso modo il frate e il cane abbiano percorso Via Pace fino al quartiere della “Garbatella”; quindi, girando a destra, abbiano imboccato Via delle Pagliarelle fino all’incrocio con via Civita. Da qui, attraverso vicoli e vicoletti, si siano inoltrati all’interno del quartiere che i sambenedettesi, con parola dialettale, chiamano “I Pajjarejje”.
Qui la città offre un aspetto meno disastrato. Essendo la parte più alta della località, non aveva, per lo meno, subìto i danni delle inondazioni delle acque del lago.
Il cane, che saltellando si è spinto in avanti, d’improvviso si ferma e, rivolto al frate, sembra dirgli: ”Caro Fra Geronimo, siamo arrivati: qui c’è vita.”
Fatti pochi passi, anche il frate comincia a sentire dei rumori.
Usciti dal vicoletto, ecco finalmente una via degna di questo nome: larga, pulita, con casupole tutte uguali ai due lati. Al centro della strada una catasta di legna e un robusto giovane che, armato di una grossa accetta, spacca tronchi e tronchetti senza fallire mai un colpo.
Accortosi dei due nuovi arrivati, il giovane lascia cadere a terra l’accetta e comincia a gridare: “E’ arrivato il frate! E’ arrivato il frate!”
Richiamati da quelle grida, uomini, donne e bambini escono di casa e vanno incontro a Fra Geronimo.

In quella strada c’erano le abitazioni dei pescatori; quelle dei pochi pastori e dei contadini erano un po’ più in là, nella zona di qualche centinaia di metri dal “Molino di Civita”.
Fra Geronimo viene accolto festosamente dalle famiglie dei pescatori e la notizia del suo arrivo è portata ben presto anche a quelle che abitano più lontano.
Ora i Sambenedettesi non si sentono più isolati dal resto del mondo. Fra Geronimo è per loro un prezioso punto di riferimento. E poi tra loro c’è finalmente uno che sa leggere e scrivere.
Si può dire che quella sera stessa il frate fa conoscenza con quasi tutti i suoi ‘parrocchiani’ (parrocchiani tra virgolette, perché a San Benedetto non c’era la parrocchia).
Nelle terre della Diocesi dei Marsi c’erano paesetti con meno abitanti di San Benedetto, ed erano parrocchie: San Benedetto dovrà aspettare ancora più di tre secoli e diventare uno dei più grossi paesi della Marsica prima di essere una parrocchia. Su questa umiliante situazione ci sono documenti per tornarvi sopra.
Fra Geronimo si mette subito al lavoro. Impiega molte ore per rendere più decorosa la Cattedrale di Santa Sabina, ma capisce subito che la sua azione pastorale si sarebbe dovuta svolgere, più che in chiesa, fuori della stessa, condividendo la vita dei suoi assistiti.
E così va dai pescatori,, li aiuta anche nelle loro dure fatiche e racconta loro che i primi discepoli di Gesù Cristo, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, erano pescatori, che il Divin maestro saliva sulle loro barche e calmava le acque del lago di Tiberiade, a volte alte e minacciose come quelle del lago Fucino, e parlava anche della pesca miracolosa.
Ai pastori dice che i primi uomini a cui fu dato l’annuncio della nascita di Gesù Cristo erano pastori. Furono essi a far visita per primi alla grotta della Natività e a portare doni alla Sacra Famiglia.
E racconta la commovente parabola della pecorella smarrita e dice delle pecore che riconoscevano la voce del pastore.
Ai contadini racconta la parabola del seminatore, e raccomanda loro di non disperdere il grano destinato alla semina lungo la strada tra pietrame e rovi. E’ sotto la buona terra che il chicco di grano muore e si riduce in polvere, dopo aver dato vita, però, ad una piantina e, a suo tempo, ad una turgida spiga.
L’occasione per dire una buona parola a tutti e per parlare del Vangelo e di San Francesco è quando la famiglia è riunita per la cena. Tutte le famiglie, a turno, invitano Fra Geronimo, che non ha altri mezzi di sostentamento.
Il frate non vorrebbe essere di peso alla comunità: i ventiquattro ducati promessi al momento dell’incarico gli avrebbero consentito una certa autosufficienza. Ma…!
Passano mesi e di quelle monete neppure l’ombra.
E non è tutto! Ecco una lettera da Pescina: si ordina al frate di lasciare la stanza datagli per dormire in Santa Sabina.
Il frate obbedisce e con l’aiuto dei suoi assistiti non è difficile trovare altro ricovero.
Con un’altra lettera gli si proibisce di fare la cerca, di chiedere elemosine. Qui non si pone il problema dell’obbedienza, perché Fra Geronimo non aveva mai chiesto elemosine e i Sambenedettesi non gli facevano mancare nulla.
Quando per motivi pastorali si recava al Molino di Civita, tornava indietro sempre con un sacchettino di farina, che il frate lasciava presso famiglie dove c’erano più bocche da sfamare.
Perché quelle proibizioni dalla Curia di Pescina? Al frate non viene contestato alcunché, per cui è da pensare che lo si volesse rispedire in convento, ma nessuno aveva il coraggio di dirglielo apertamente.
Fra Geronimo, quando predicava, diceva che uno dei peccati più grossi per i cristiani, ma non solo per essi, è quello di defraudare la mercede degli operai. Egli si considerava un operaio nella vigna del Signore, e perciò un defraudato. E così, un bel giorno, Fra Geronimo prende carta e penna, scrive una lettera e la spedisce a Roma, la città del Papa.
Un tempo lungo cinque secoli, le distruzioni per terremoti, il trasferimento dell’Archivio diocesano da Pescina ad Avezzano, i bombardamenti della seconda guerra mondiale, hanno per fortuna risparmiato due documenti relativi alla commovente storia di Fra Geronimo da Goriano, inviato a servire nella chiesa di Santa Sabina.
- Il primo documento è la lettera datata Roma, 22 agosto 1587 e inviata dalla Curia Pontificia al Vicario della Diocesi dei Marsi in Pescina;
- Il secondo è una relazione che lo stesso Vicario scrive per il vescovo Matteo Colli intorno alla vicenda di Fra Geronimo.
Nella lettera inviata da Roma si mostra rincrescimento “Che a Fra Geronimo che serve a Sancta Sabbina, non solo li sia levata la stanzia dove habbitava…par che non sia sotisfatto di sua mercede, ma anco prohibitoli la cerca.”.
Non essendoci un motivo perché ciò sia stato fatto, al ricevere della lettera il Vicario non mancherà di fare in modo che il frate sia soddisfatto dal Capitolo, dall’abate Silverio e dai parrocchiani di quello che ha servito e servirà nella cura delle anime. Inoltre il Vicario farà subito riconsegnare al frate la stanza dove prima abitava nella chiesa di Santa Sabina.
Nella lettera c’è un non troppo velato rimprovero al Vicario perché “Queste son cose che da voi ci dovessino remediare”, senza dar fastidio altrove. E forse anche perché a Pescina l’avevano fatta grossa, la lettera si conclude con le parole:”N(ostro) S(ignore) ve conservi in Sua Gratia”.
Nella relazione del Vicario al Vescovo è rifatta la storia di Fra Geronimo che già conosciamo. Il frate è detto “il povero mendico Fra Geronimo da Goriano”.
Sono passati appena sette anni e sembra che la gloriosa città di Valeria abbia perso non solo la sede vescovile, ma anche il suo nome. Nella relazione del Vicario non è mai nominata la città di Valeria. Leggiamo, infatti, che Fra Geronimo fu mandato “A servire a Sancta Sabina, per cura delle anime chellà si ritrovano”.
Per la ripartizione dei ventiquattro ducati da dare al frate per il servizio nella chiesa di Santa Sabina si dice che una parte deve essere pagata “Dalli abitanti di detto loco”. I ventiquattro ducati promessi a Fra Geronimo dovevano servire “Per suo subsidio et salario”. Fra Geronimo, dunque, era ritenuto dalla Curia di Pescina un”salariato” e, come tale, giustamente egli si riteneva un operaio nella vigna del Signore.
Nella relazione è detto anche che “L’Arcidiacono a prohibito di non poter questuare”. Nell’annotazione in calce il Vescovo Matteo Colli scrive che “Il Vicario….. conforme alli altri mi’ ordini faccia che l’oratore sia satisfatto della sua servitù siccome è stato fatto il repartimento della sua mercede”.
Dunque, Fra Geronimo ha ottenuto giustizia.
Qui finisce l’aiuto delle carte.
Non sappiamo fino a quando Fra Geronimo abbia servito nella chiesa di Santa Sabina, tra quei nostri antenati che erano rimasti tra case diroccate, per amore del paese natìo, del lago Fucino, degli animali, delle fertili terre a ridosso del fiume Giovenco.
Un brutto giorno, però, o perché richiamato in convento o per altro incarico, fra Geronimo dovette andare via da San Benedetto,
Lasciamolo intento a salutare e a dire una buona parola a tutti i suoi assistiti, anche a quelli del Molino di Civita.
Osserviamolo inginocchiato su un gradino dell’altare maggiore mentre recita per l’ultima volta dentro la chiesa di Santa Sabina, ora anche nell’interno bella, pulita e decorosa, la sua preghiera preferita:
                          “Altissimu, Onnipotente, Bon Signore,
         Tue So’ Le Laude, La Gloria  E L' Honore 
Et Onne Benedictione…..
                    Laudato Sie, Mi’ Signore, Cum Tucte Le Tue Creature.”

Vediamolo con lo sguardo intento ad ammirare, stupito, per l’ultima volta, la facciata della Cattedrale di Santa Sabina e poi avviarsi lentamente lungo strade dove le case erano ancora semidistrutte perché nessuno le aveva ricostruite.
E di una cosa possiamo essere certi: quando Fra Geronimo era arrivato a San Benedetto, aveva solo una bisaccia a tracolla e un nodoso bastone nella mano destra. Ora che se ne parte ha solo la bisaccia a tracolla, nelle mani libere neppure un bastone che avrebbe potuto impaurire qualche animale.
Allontanandosi dalle ultime case, gli tornano in mente i versetti ispiratigli mentre accarezzava dolcemente la testolina bianca e nera del cane, che poggiava le zampette anteriori sull’ultimo scalino del portale di Santa Sabina:
                  “Laudato sie, mi’ Signore, per frate cane,
                    che abbaia, ma è fedele,
                    ce vo’ bene e ce defenne.”

CAPITOLO 6 : VALERIA E MOLINO DI CIVITA

Se, come abbiamo visto nelle carte relative alla vicenda di Fra Geronimo, il nome della semidistrutta Valeria non è mai citato, esso appare quasi sempre nelle carte del Seicento e del Settecento riguardanti  il “Molino di Civita”
Le citazioni, anche a distanza di decenni l’una dall’altra, sono espresse con identiche parole:
il “Molino di Civita”, spettante alla mensa vescovile e al Capitolo della Cattedrale “è situato vicino al Lago Fucino et all’antica Cattedrale dei Marsi, chiamato di Civita dal nome della città qual era l’antica e famosissima Valeria, capo della Diocesi dei Marsi.”
Inoltre, in una delle carte del 1809 di Santa Sabina, si dice: “La chiesa di Santa Sabina, antica Cattedrale dei Marsi, è di vetustissima origine, vicina ai tempi apostolici, libera e dipendente dal suo Vescovo.”
La Civitas Valeria oggi, ma non solo da oggi, è ricordata in San Benedetto nella toponomastica di due belle strade.
Perché in due strade? Cerchiamo di capirne il motivo.
In San Benedetto la “Cittadella” e “I Pajjarejje” (o territorio delle Pagliarelle) sono i due più antichi quartieri della vecchia città. Sono due aggregati di case, di forma triangolare con la base comune in Via Capocroce.
Nel quartiere delle Pagliarelle da Via Capocroce partono due strade chiamate rispettivamente Via Romana, quella del lato ovest, e Via Civita, quella del lato est. Le due strade convergono al vertice del triangolo poco lontano dal Molino di Civita, il più importante molino della Marsica, dove venivano a macinare anche da Trasacco, da Luco, da Collelongo e da altri paesi della zona.
Quanta storia di San Benedetto nel Molino di Civita!
Già vecchio di alcuni secoli, fu distrutto dalle inondazioni del lago; ricostruito un po’ più a monte, continuò a macinare grano per altri secoli.
Chi lo ha visto in funzione ed ora lo vede ridotto ad un cumulo di sassi e a discarica abusiva di rifiuti di ogni genere sente una stretta al cuore.
Addio, caro, vecchio Molino di Civita!
Ma torniamo alle nostre strade.
Via Romana, a ricordo della grandezza dell’antica Marruvio, amica fedele di Roma; Via Civita, perché la via che portava al Molino di Civita non poteva non chiamarsi Via Civita, a ricordo della Civitas Valeria.
“Civita”, non come aggregato di case, ma nel significato della parola latina ‘civitas’, di comunanza di uomini, comunanza che nel nostro caso aveva il nome proprio di Valeria.
Anche nel quartiere della Cittadella ci sono segni del passato, a cominciare dal nome. La parola “Cittadella” non significa qui baluardo, difesa, ultimo rifugio dei difensori, di solito situata nella parte più alta della città. La “Cittadella”, come quartiere di San Benedetto, era, ed è, la parte bassa del paese, con le case quasi a lambire le acque del lago Fucino. Quando nel lago c’erano escrescenze, l’acqua penetrava dentro le stradine e i vicoli, e il quartiere, se è lecito paragonare le cose piccole alle cose grandi, sembrava un pezzo di Venezia.
Il nome “Cittadella” del quartiere sambenedettese, tra il diminutivo e il vezzeggiativo, ha il significato di piccola città nel contesto di una città grande; vuol dire anche la parte più bella della stessa, come piccola perla incastonata in un anello.
Cosa sarebbe stato, però, il quartiere della Cittadella senza un riferimento alla città di Valeria? E così dettero il nome di Valeria alla via che, dividendo in due parti uguali il quartiere era la più larga, e la più bella, lunga quanto la Via Romana, di cui sembra il prolungamento verso il fiume Giovenco.   

CAPITOLO 7 : MARTEDI' 1° NOVEMBRE 1633, ORE 20

Nel corso del Seicento e del Settecento nella Marsica si registrarono cinque o sei terremoti, il più disastroso dei quali fu certamente quello verificatosi martedì 1° novembre 1633 alle ore 20.
Ne è rimasta testimonianza nell’Archivio parrocchiale di Cerchio.
A San Benedetto c’erano ancora poche famiglie. Le case, già semidiroccate, finirono per crollare del tutto e la Cattedrale di Santa Sabina rimase gravemente danneggiata.
Perché prima del terremoto del 1633 e ancora per un secolo dopo tale evento in San Benedetto non vengono effettuate ricostruzioni?
La storia ci insegna che spesso dalle loro rovine le città risorgono più grandi e più belle di prima. Ci vogliono, però, uomini che si rimboccano, come suol dirsi, le maniche e si danno da fare. Questo a San Benedetto allora non avvenne. La ricostruzione non poteva essere opera delle poche persone residenti, assillate da difficoltà di ogni genere e impegnate nelle dure fatiche per la sopravvivenza.
Quelli che si erano trasferiti a Pescina intorno al 1580, e che rappresentavano la quasi totalità degli abitanti di Valeria, avevano speso tutte le loro energie per inserirsi nel nuovo contesto socio-economico. I discendenti di seconda e terza generazione erano ormai legati al loro luogo natio. Né a Pescina avevano dimenticato che ricostruire Valeria significava riportare in essa la sede vescovile.
E così dopo il terremoto del 1633, ma forse già da prima, nasce quel triste fenomeno della asportazione, da San Benedetto, delle pietre di edifici privati e delle numerose, antiche, opere pubbliche.
Di quelle asportazioni è pervenuta fino a noi una eloquente documentazione datata 1681.

CAPITOLO 8 : ANNO 1681. L'ASPORTO DELLE SACRE PIETRE

Il 1° gennaio 1680 a Pescina si festeggiò non solo il Capodanno, ma anche il primo centenario della traslazione della sede vescovile.
A San Benedetto i pochi abitanti si accorsero sì e no del Capodanno, ma senza festeggiamenti. Il centenario era del tutto ignorato.
Dal tempo di Fra Geronimo c’era stata una diminuzione della già scarsa popolazione, forse anche per effetto del terremoto del 1633.
E’ della metà del Seicento la citata annotazione dello storico Muzio Febonio che  San Benedetto era “un modesto tugurio di pescatori contenente appena dieci famiglie”.
Il piccolo nucleo degli irriducibili, comunque, resiste e nel Settecento sarà come un lievito per far crescere la popolazione.
Prima di parlare delle ‘sacre pietre’, quelle cioè appartenenti ad edifici sacri, alle chiese, è necessario fare una premessa.
Un sacerdote spagnolo, Giuseppe Calasanzio (che nel 1767 sarà proclamato santo), venuto a Roma, vi fondò la Congregazione religiosa delle “Scuole Pie” e proprio a Roma nel 1597 aprì la prima scuola gratuita per l’istruzione dei figli del popolo. Una benemerita istituzione di grande portata storica per la diffusione della cultura, non solo religiosa. Ne è testimonianza la rapida diffusione delle “Scuole Pie” in tutta l’Europa.
I sacerdoti della Congregazione erano detti Scolopi oppure Piaristi, o, semplicemente Pii.
A Pescina, il più importante centro religioso della Marsica come sede della Diocesi, venne una rappresentanza dei membri delle “Scuole Pie” e vi fondò un convento con annesso oratorio.
Siamo nel 1681 e a Pescina è da poco arrivato il nuovo vescovo Francesco Bernardo Corradini, al quale viene indirizzata una lettera, il cui contenuto può essere così riassunto: “(Siamo) li Pii delle Scuole Pie di Pescina e abbiamo intenzione di costruire una chiesa in onore di san Giuseppe. Siamo, però, scarsi di denaro per la poca entrata del convento, inoltre per le molte spese fatte nella fabbrica del convento, ci troviamo con un debito di mille ducati. Per questo supplichiamo la Signoria Vostra Illustrissima di concederci di scavare nelle terre della S.V. intorno a Santa Sabina per tentare di trovare pietre da servire per la chiesa di Pescina. Chiediamo ancora di volerci concedere le pietre della diruta chiesa di S. Manno nel territorio di Ortucchio di là dal lago”.
Nella lettera c’è l’annotazione del vescovo, che, con qualche raccomandazione, concede licenza al Padre Rettore.
Se è vero che per costruire ci vogliono le pietre, è altrettanto vero che queste servono anche per ricostruire.
Come era possibile ricostruire la città di Valeria, secondo anche gli auspici del Papa Gregorio XIII, se da essa venivano asportate persino le pietre che erano intorno ad un luogo sacro?
La mancanza di pietre per la ricostruzione sarà avvertita in San Benedetto nel corso del Settecento, quando, per la crescita del numero degli abitanti, occorrevano nuove case, nuove stalle, nuovi magazzini. 

 

CAPITOLO 9 : LA POPOLAZIONE DI SAN BENEDETTO NEL SETTECENTO

Prima che nei Comuni fossero istituiti gli uffici dell’anagrafe, erano le parrocchie la fonte quasi unica per le notizie relative allo stato della popolazione. I parroci, alla fine dell’anno solare, o, a volte, all’inizio del nuovo anno pasquale, compilavano un modulo sullo “stato delle anime” e lo facevano recapitare alla Curia Vescovile.
Non c’erano tipi di moduli prestabiliti. A volte il compilatore comunicava lo stretto necessario: numero dei nati e dei morti nell’anno, numero dei matrimoni celebrati, numero complessivo dei viventi.
Altre volte si aggiungevano altre notizie: il numero dei coniugati e delle coniugate con prole o senza prole, il numero dei vedovi e delle vedove, il numero dei nati e dei morti distinti per sesso.
I più ‘pignoli’ vi aggiungevano il numero dei sacerdoti, dei chierici, dei monaci e frati sacerdoti, dei monaci e frati laici delle monache e delle educande.
In tutti i moduli c’era indicato comunque il numero complessivo dei viventi.
I dati raccolti venivano pubblicati dalla Curia parrocchia per parrocchia e di ognuna di queste erano indicati il numero complessivo degli abitanti, dei preti e dei monaci.
San Benedetto, non più Civitas Valeria, aveva preso il nome di Villa Sancti Benedicti (si trova anche Pagus Sancti Benedicti), cioè Villa (o villaggio) di San Benedetto.
I suoi abitanti erano, e lo saranno ancora per molti anni, parrocchiani di Santa Maria delle Grazie in Pescina.
Come paese senza una parrocchia autonoma, San Benedetto non figura in quegli elenchi. Quando il numero dei suoi abitanti comincia ad essere di una certa consistenza, per indicare la popolazione complessiva della parrocchia di Santa Maria delle Grazie, si scriveva “Pescina e Villa di San Benedetto”.
Tanto per fare un esempio, negli elenchi del 1796 è scritto che “Pescina e Villa di San Benedetto hanno 3004 abitanti con 30 preti e 8 monaci”. Non c’è, però, indicazione alcuna degli abitanti dei due paesi considerati separatamente.
Come annotato nelle prime pagine, la Storia è anche “luce di verità”. La luce è a volte più luminosa del solito e lascia dietro di sé delle scie, degli sprazzi. Così, se vogliamo conoscere il numero degli abitanti di San Benedetto nel Settecento, dobbiamo andare alla ricerca di quegli sprazzi, pochi in verità.
Ed eccone uno: documento prezioso, perché unico.
A San Benedetto l’assistenza religiosa era affidata ad un sacerdote, detto Economo-curato, quale coadiutore del Canonico-curato di Santa Maria delle Grazie.
Nel 1738 era Economo-curato il sacerdote Tommaso Sclocchi, il quale in data 4 maggio 1738 mandò al Canonico-curato di Pescina un resoconto sullo stato della popolazione della Villa di San Benedetto.
La popolazione è distinta per sesso e in tre categorie: di comunione, di cresimati, di non cresimati.


Ecco lo specchietto completo:
- uomini di comunione:                                   54
- donne di comunione:                                    48
- uomini di confermazione e cresimati:          9
- donne di confermazione e cresimate:         7
- figlioli non cresimati:                                     11
- figliole non cresimate:                                   13
                                                             ___________
                                                                 TOT    142
Firmato: Tommaso Sclocchi, Economo-curato.

A Pescina, con altra mano e con altro inchiostro, furono operate due addizioni:
    
48                                                           54
7                                                             9
13                                                           11
_____                                                    ______
              68 (femmine)                                         74 (maschi)

Dunque, San Benedetto contava nel 1738 appena 142 abitanti, triplicati rispetto a quelli “contati” da Muzio Febonio più di cento anni prima.
Un altro ‘sprazzo’ di luce ci viene da una carta del 1779. Si tratta di una minuta su cui il compilatore sta facendo dei conti per individuare il numero preciso dei viventi in Pescina e Villa di San Benedetto. Si fa riferimento ai cresimati dal 30 luglio 1778 che sono 77, ai morti dal 1° agosto 1778 che sono 59. Due annotazioni, però, sono molto chiare:
  - “Oggi, lì 18 maggio 1779, i viventi in Pescina e Villa di San Benedetto (sono) 2638”.
  - “Anime della Villa di San Benedetto sono in numero 308”.

A distanza di una trentina di anni il numero degli abitanti di San Benedetto è più che raddoppiato. La crescita è ormai inarrestabile e continuerà per tutto il secolo successivo.
E’ da presumere che alla fine del Settecento San Benedetto contasse dai 400 ai 500 abitanti, un numero di tutto rispetto, se si considera che nel 1796 Trasacco ne contava 805.
E se il numero delle anime registrate nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie in Pescina passa dai 2638 del 1779 ai 3004 del 1796 (più 366 in 17 anni), il fenomeno è dovuto soprattutto alla crescita della popolazione di San Benedetto.
 

CAPITOLO 10 : NEL CORSO DEL SETTECENTO A SAN BENEDETTO NASCONO "LE PAGLIARELLE"

Per la prodigiosa e costante crescita degli abitanti si dovevano costruire nuove case, nuovi ricoveri per animali, nuovi magazzini. Occorrevano tante pietre, ma queste scarseggiavano a causa delle varie asportazioni dei due secoli precedenti.
La necessità, però, aguzza l’ingegno.
Nella zona era possibile far rifornimento di creta e di paglia. Con l’impasto di creta e paglia si potevano ricavare dei blocchetti che, essiccati, diventavano un buon materiale da costruzione.
Nascono così quelle caratteristiche costruzioni, che, a causa dell’abbondante paglia utilizzata, furono chiamate “Le Pagliarelle”
Queste servivano principalmente per il ricovero degli animali e come magazzini, ma a volte come dimora provvisoria della famiglia, in attesa di poter usufruire di una casa in pietra.
Oggi a san Benedetto “Le Pagliarelle” non ci sono più, ma il loro ricordo è rimasto nel nome di una lunga strada: via delle Pagliarelle, appunto.
E un ricordo è anche nel nome del rione dove se ne iniziò la costruzione: “I Pajjarejje”, parola dialettale traducibile in Italiano con una circonlocuzione, con un giro di parole: “Quartiere delle Pagliarelle”.

CAPITOLO 11 : ANNO 1788. UNA PRIMA, MODESTA, MA SIGNIFICATIVA CONQUISTA : IL BATTISTERO.

Come già fatto presente, a partire dal 1580, ma forse da anni prima, San Benedetto aveva perso quasi tutti i suoi abitanti, trasferitisi a Pescina con il Vescovo Matteo Colli, il Capitolo della Cattedrale di Santa Sabina e tutto il clero.
Neppure un sacerdote era rimasto per la cura delle poche famiglie non trasferitesi, se è vero che nel 1587 dalla Curia fu mandato a servire nella chiesa di Santa Sabina il frate francescano Fra Geronimo da Goriano.
Se i Sambenedettesi trasferitisi a Pescina divennero di diritto parrocchiani di Santa Maria delle Grazie, quelli rimasti a San Benedetto lo divennero di fatto, cioè anch’essi furono registrati come parrocchiani della nuova Cattedrale di Pescina.
Questo significava che le cerimonie religiose, come quelle dei battesimi, dovevano essere svolte nella chiesa parrocchiale di Pescina.
Se proviamo ad immaginare lo stato della strada tra San Benedetto e Pescina, i lunghi e gelidi inverni marsicani, la mancanza di qualsiasi mezzo di trasporto, ci rendiamo conto come fosse disagiato portare i bambini a Pescina per il battesimo. Questa situazione di disagio durava da due secoli.
Siamo nel 1788, il numero degli abitanti in San Benedetto si avvicina ai quattrocento. Da San Benedetto una supplica al Vescovo dei Marsi Francesco Vincenzino Lajezza, perché autorizzi la costruzione di un battistero all’interno della locale chiesa benedettina, per consentire ai bambini di essere battezzati nel luogo dove sono nati.
Il Vescovo acconsente, riconoscendo che, per i rigori dell’inverno e per le pessime strade, era rischioso portare i bambini a Pescina per il battesimo.
E così il Vescovo Lajezza, con decreto del 1° aprile 1788, concede ai Sambenedettesi (o Sambenedettini, come venivano anche chiamati) di costruire un proprio battistero.
La concessione del Vescovo è in un atto del notaio Filippo Buccella di Ortona dei Marsi, che viene firmato dal signor Saverio Ottavi, Procuratore dei Sambenedettesi, e dal Canonico Stefano Petrucci, Procuratore del Capitolo della Cattedrale.
Come sottolineato nel documento notarile, la concessione del Vescovo per la costruzione di un battistero in San Benedetto era subordinata ad alcune condizioni. Ne prendiamo in esame due:
- la prima: le popolazioni di Pescina e di San Benedetto hanno sempre formato e dovranno continuare a formare “un corpo, una università e una stessa parrocchia sotto la cura di un solo parroco, il Canonico-curato di Santa Maria delle Grazie”;
- la seconda: non è data facoltà di tenere libri parrocchiali a San Benedetto, ma tutte le notizie relative ai battezzati, ai defunti, ai coniugati, ai cresimati dovranno, a cura dell’Economo-curato, essere mandate subito a Pescina per essere registrati nei libri della parrocchia.
Pur con le citate limitazioni, San Benedetto compie il primo modestissimo passo verso l’autonomia da Pescina. Dovranno trascorrere altri 157 anni prima della grande, definitiva e storica conquista del 7 settembre 1945.
Sarebbe stato bello conoscere il nome del primo bambino sambenedettese che, a distanza di due secoli dall’ultimo, potè essere battezzato nel battistero del paese natìo, ma non sempre, nelle ricerche, la fortuna è benevola.
Nel 1804, una quindicina di anni dopo l’inaugurazione del battistero, di bambini ne furono battezzati otto: quattro maschi e quattro femmine e, poiché si tratta di otto sambenedettesi di due secoli fa, è bello conoscerne i nomi.
Eccoli:
1. Cerasani Anna Lucia (di Adriano e di Rosina Raglione) – classe 1802;
2. Jacone Pio (di Giuseppe e di Lucia De Arcangelis) – classe 1802;
3. Di Mascio Vincenzo Antonio (di Francesco e di Nunzia Di Nicola) - classe1803;
4. Raglione Agnese Alba (di Giuseppe e di Anna Concetta Grioli) – classe 1802;
5. Trinchini Agostino (di Berardo e di Maria Concetta Di Nicola) – classe 1802;
6. Tarquini Maria Arcangela (di Vincenzo e di Teodora Morisi) – classe 1804;
7. Macerola Damiano (di Felice e di Celeste Simboli) – classe 1802;
8. Gentile Angel’Antonia Maria (di Giovanni e di Maria Berarda Angeloni) –  classe 1803.

 

CAPITOLO 12 : ..... MA PER LA PARROCCHIA CI VORRA' ANCORA PIU' DI UN SECOLO.

Siamo dunque nel XIX secolo.
Quante conquiste, quanti eventi, ma anche quante rivoluzioni e quante guerre registrano i libri di Storia!
Qui è sufficiente sottolineare come nel giro di una sessantina di anni i Marsicani assistono al cambiamento per ben quattro volte della loro nazionalità, in senso politico, naturalmente.
Già sudditi dei Borboni nel Regno delle Due Sicilie, si ritrovano nel 1808 cittadini del Regno di Napoli del re francese Gioacchino Murat. Questo regno dura poco e nel 1815 si ritorna sudditi della dinastia dei Borboni nel restaurato Regno delle Due Sicilie. Ma ecco nel 1860 il ciclone Garibaldi con i suoi “Mille” e la nascita, il 17 marzo 1861, del Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia.
Dal 1854 sono iniziati i lavori per il prosciugamento del lago Fucino, opera che avrebbe portato notevoli cambiamenti fisici e climatici nella Marsica.
Immobile rimaneva, invece, la situazione dei Sambenedettesi, che, pur cresciuti di numero, non hanno ancora una loro parrocchia autonoma.
Dallo storico marsicano Canonico Di Pietro veniamo a sapere che “San Benedetto alla data del 31 dicembre 1866 contava 930 abitanti sottoposti (come da secoli, del resto) all’unica parrocchia della città di Pescina”.
Intanto la popolazione continuava a crescere in maniera impressionante, specialmente dopo il prosciugamento del lago Fucino. A San Benedetto trovano sistemazione molti cittadini provenienti da altre province abruzzesi. In  paese è tutto un cantiere per la predisposizione di nuove case.
Alla fine dell’Ottocento gli abitanti di San Benedetto sfiorano il numero di 4000.
Tra le carte dell’ultimo quarto del XIX secolo ce ne sono di molto interessanti, sia per la questione della parrocchia in San Benedetto, che per la chiesa di Santa Sabina.
Prendiamone in esame alcune.

CAPITOLO13 : ANNO 1873. CHI DEVE PAGARE L' ECONOMO-CURATO DI SAN BENEDETTO?

Se nel 1587 Fra Geronimo, inviato a servire nella chiesa di Santa Sabina, fu costretto a scrivere a Roma per ottenere dalla Curia di Pescina i 24 ducati promessi per il suo sostentamento, nel 1873 a scrivere a Roma è il Canonico-curato della Cattedrale di Pescina, per essere liberato dal peso di pagare 56 ducati annui al suo coadiutore Economo-curato in San Benedetto.
Cerchiamo di capire il motivo di quel lungo ricorso, scritto in due fogli per quattro facciate.
La lettera è indirizzata “A Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Prefetto della S. Congregazione del Concilio – Roma”.
Ecco, in sintesi, cosa è scritto nella lettera:
“(Io) Pietro Colantonj, Canonico-curato della chiesa Cattedrale di Pescina, a seguito di concorso, dal 10 luglio 1853, tra gli altri oneri del Canonicato, debbo corrispondere 56 ducati annui al mio coadiutore Economo-curato in San Benedetto, villaggio riunito a Pescina.
Prima di me l’Economo-curato veniva pagato sulle rendite della Badia sotto lo stesso titolo eretto nella chiesa del villaggio.
Ho pagato regolarmente fino al 1872, ma ora non intendo più pagare per i seguenti motivi:
1. le rendite di questa Cura sono diminuite sia per gli enormi pesi fiscali e comunali accresciuti, sia per il prosciugamento del lago Fucino che ha portato un notevole ribasso all’affitto dei nostri fondi;
2. ritengo il pagamento indebito;
3. sono malato di gotta e passo quasi tutto l’inverno a letto, ho bisogno di un coadiutore, ma non ho i soldi per pagarlo: nemo dat quod non habet (nessuno dà ciò che non ha).
Si chiede l’intervento di Sua Eminenza.”

Non si sa se da Roma arrivò una risposta e, se sì, di quale tenore fosse.
La lettera del Canonico Colantonj aveva, comunque, posto in evidenza un problema piuttosto serio: fino a quando il paese San Benedetto, con un numero di abitanti che si sta avvicinando a quelli di Pescina, deve rimanere sottoposto all’unica parrocchia della Cattedrale in Pescina?
Purtroppo, ancora per molti anni.
E poi c’era un altro grosso problema di carattere economico.
Come vedremo più avanti, sarà il Vescovo Enrico De Dominicis, una ventina di anni dopo, a tentare, ma senza alcun successo, una soluzione ai due problemi.

 

CAPITOLO 14 : 1873 E SEGUENTI. LA CHIESA DI SANTA SABINA HA BISOGNO DI RIPARAZIONI. INTERVENTO DELLA CONFRATERNITA DI SAN VINCENZO FERRERI.

La chiesa di Santa Sabina ha bisogno di riparazioni e poiché, a quanto pare, nessuno se ne preoccupa, la Confraternita di San Vincenzo Ferreri (costituitasi a San Benedetto il 10 novembre 1804) interviene con una lettera in data 26 gennaio 1873 inviata al Vescovo Federico de Giacomo e al Capitolo della Cattedrale.
I confratelli chiedono di poter riparare a proprie spese l’edificio sacro e di essere autorizzati a costruire nell’interno della chiesa due tombe: una per i membri della Confraternita e l’altra per il popolo.
La lettera è firmata dal Priore Ottavi Arcangelo, dal 1°assistente Zauri Luigi, dal 2°assistente Raglione Vitale e dal Cappellano Ottavi don Serafino.
Sulla lettera c’è l’annotazione del Vescovo De Giacomo con l’invito al Capitolo a deliberare “maturamente” e a comunicare “a suo tempo” il deliberato all’Episcopio.
La riflessione del Capitolo è abbastanza lunga: la deliberazione capitolare, in senso positivo, è del 7 settembre 1876. Il decreto del Vescovo viene emesso il 29 settembre 1876 e la stipula del contratto si realizza il 3 ottobre 1876.
Con quel contratto il Capitolo della Cattedrale di Pescina cede all’Economo-curato di San Benedetto don Antonio Tarquini solo l’uso della chiesa di Santa Sabina e gli dà la facoltà di far costruire nella navata laterale sinistra due tombe.
Ormai sono passati quasi quattro anni dalla richiesta della Confraternita di San Vincenzo Ferreri e i danni alla chiesa di Santa Sabina sono sempre più consistenti. Passa qualche altro anno e una porzione del tetto della chiesa cade giù.
Intanto il Municipio di Pescina ha fornito il terreno per un primo nucleo del Camposanto di San Benedetto.
All’Economo-curato di San Benedetto viene revocato il permesso dell’uso della chiesa di Santa Sabina, che di diritto appartiene al Capitolo.
E così l’antica Cattedrale rimane di nuovo chiusa.

CAPITOLO 15 : 1875. SAN BENEDETTO DA VILLAGGIO ALLO "SPLENDORE DI UNA POPOLOSA CITTA' "

Dopo nove anni di sede vacante, nel 1872 viene nominato Vescovo dei Marsi un abruzzese: Federico De Giacomo, nativo di Bucchianico (Ch).
Mons. De Giacomo è un vescovo dinamico, sebbene di salute cagionevole.
Dopo aver visitato tutte le parrocchie della Diocesi, nel 1875 il Vescovo compie a Roma la visita “ad limina”, cioè la visita che tutti i vescovi, dopo un certo numero di anni, devono compiere per incontrare il Papa, al quale viene consegnata una relazione sullo stato della Diocesi.
Nella lunga relazione del Vescovo De Giacomo è possibile leggere interessanti notizie che riguardano la storia antica  e recente di San Benedetto.
Nella descrizione delle vicende relative alla sede vescovile dei Marsi è detto che Marruvio, Capitale dei Marsi, presso il Fucino, dopo la guerra Sannitica fu distrutta dalle fondamenta (anno 445). Poco dopo, per ordine di Valerio Massimo (anno 451) fu riedificata e dal console romano prese il nome di Valeria.
A questo periodo, in cui San Benedetto si chiamava Valeria, si fa risalire la costruzione della chiesa di Santa Sabina martire, nella quale fu posta la Cattedra di tutta la Diocesi dei Marsi, che tenne fino alla rovina di Valeria, cosa che, è da credersi, avvenne dopo il 1320.
Proprio in questi tempi, al posto di Valeria, si trova il nome “Marsia” in atti tanto pubblici che privati, in argomenti sia civili che canonici.
Da allora fino all’anno 1579 non c’è quasi nessun’altra memoria.
Si accenna, quindi, alla Bolla del Papa Gregorio XIII in data 1°gennaio 1580 e alla traslazione della sede episcopale da Valeria al Castello di Pescina, che abbiamo già ricordato.
Accennando alle vicende della chiesa di Santa Sabina, il Vescovo scrive che l’antica Cattedrale è ridotta alla quinta parte della sua primitiva grandezza, spogliata del suo campanile e delle campane e privata di tutto il resto, utilizzato per la costruzione in Pescina della nuova chiesa di San Berardo e per dare una migliore e idonea forma alla Cattedrale di Santa Maria delle Grazie.
Il vescovo De Giacomo aveva già compiuto la visita pastorale a San Benedetto e aveva ammirato con stupore la bellezza di quella antichissima Cattedrale. Egli aveva ricevuto la lettera della Confraternita di San Vincenzo Ferreri in data 26 gennaio 1873 e alla quale non era stata data ancora risposta. Ora, durante la visita, si rende personalmente conto dello stato di abbandono di quella chiesa chiusa al culto e delle riparazioni di cui ha bisogno, perciò scrive nella relazione e dice a viva voce al Papa Pio IX che sono state fatte insistenti richieste di contributi all’Economato Regio, affinché possa essere conservato quello che resta della splendida antica Cattedrale.
Ci si augura che Santa Sabina possa essere ancora restituita al culto.
Sappiamo che i contributi dello Stato ci furono e che Santa Sabina fu, dopo le riparazioni, riaperta al culto.
I Sambenedettesi potranno godere di quel gioiello solo per pochi anni: il terremoto del 13 gennaio 1915 ridurrà ad un ammasso di macerie tutta la parte perimetrale della chiesa, la bella cupola esagonale e parte della facciata. Si salverà dalla distruzione il resto della facciata con il preziosissimo portale.
Molto interessante quanto è scritto nella relazione del vescovo De Giacomo riguardo a San Benedetto. E’ da credere che proprio durante la visita pastorale egli sia rimasto bene impressionato da quanto stava verificandosi in San Benedetto.
In meno di dieci anni gli abitanti erano più che triplicati, il paese era tutto un cantiere per la costruzione di case per i nuovi arrivati, vi si sentivano parlare tutti i dialetti dell’Abruzzo.
Mi piace immaginare che il Vescovo, nell’incontro con la comunità sambenedettese, abbia notato che qualcuno parlava un dialetto che gli era noto.
A San Benedetto, infatti, c’era già un piccolo gruppo di immigrati provenienti da Casalincontrada (Ch), un paese, in linea d’aria, vicinissimo alla sua Bucchianico.
E così, alla fine del paragrafo I del capitolo primo della sua relazione, in un bel latino ecco cosa scrive Mons. De Giacomo:
“La cittadella di San Benedetto ora occupa il luogo dove fiorivano prima Marruvio e dopo Valeria e Marsia; e i suoi abitanti, una volta esperti soltanto nell’arte della pesca, ora si adoperano con impegno in agricoltura (date) l’occasione e l’opportunità del prosciugamento del lago Fucino; il loro numero cresce di giorno in giorno, specialmente per le continue immigrazioni, cosicché sembra (potersi) prevedere che la stessa Cittadella sarà di nuovo destinata alla potenza e allo splendore di una città popolosa.”
San Benedetto, che per tre secoli, dopo la rovina di Valeria, era considerata un piccolo villaggio (‘parvus pagus’), un insignificante tugurio di dieci famiglie (‘vile tugurium’) e poi villaggio si San Benedetto (‘Villa Sancti Benedicti’), ora, per la prima volta, dal vescovo De Giacomo è detta una Cittadella (‘oppidum’) destinata a ridiventare una città (‘civitas’).
Il vescovo De Giacomo cercò di porre termine alla umiliante situazione dei Sambenedettesi dipendenti dall’unica parrocchia di Pescina.
Il Vescovo, che aveva riunito in una più parrocchie con qualche decina di abitanti, per San Benedetto, grosso e vitale centro che cresceva in abitanti di giorno in giorno ed era proiettato “verso la potenza e lo splendore di una popolosa città”, prese un provvedimento del tutto eccezionale.
Senza entrare nel merito della forma, nella sostanza, e con parole più semplici, possiamo immaginare il discorso che il Vescovo fece ai sacerdoti che operavano in San Benedetto: “Obiettive difficoltà e lungaggini burocratiche ci impediscono di prendere una decisione definitiva, ma con questo nostro provvedimento stabiliamo che San Benedetto abbia una ‘cura’ autonoma da Pescina.”
Una parrocchia di fatto, non di diritto, per ottenere la quale occorrerà aspettare ancora una trentina di anni.

CAPITOLO 16 : 1885. UN ANTICO QUADRO DI SANTA SABINA IN SANTA MARIA DELLE GRAZIE A FUTURA MEMORIA.

Di questo quadro abbiamo già scritto nell’illustrare le vicende del 1580.
Dagli inizi del 1885 è nuovo Vescovo dei Marsi Enrico De Dominicis. Abbiamo già detto della sua ‘meraviglia’ nel constatare che sull’altare maggiore della Cattedrale c’è il quadro di Santa Sabina, patrona della Diocesi,  e non quello di Santa Maria delle Grazie. Il Vescovo chiede conto di ‘tale anormalità’ e gli viene così risposto:
“L’antica Cattedrale dedicata a Santa Sabina esisteva nella vetusta e famosa città Valeria; distrutta questa a seguito di subite vicenda guerresche, il Capitolo con indulto (= permesso) pontificio trasferì l’officiatura corale (= le preghiere che i canonici sono obbligati a recitare in coro) in questa città viciniore, e precisamente nella chiesa di Santa Maria delle Grazie…… e forse a futura memoria dell’antico titolo fece collocare nel maggiore altare della Cattedrale l’immagine di Santa Sabina.”
Al Vescovo viene mostrato ‘un rescritto della Sacra Congregazione dei Riti in data 20 giugno 1637’ con il quale viene determinato in quali giorni più solenni, in assenza o impedimento del Vescovo,le funzioni vengono celebrate dall’Arcidiacono. Tra i giorni più solenni non è compreso quello della Madonna delle Grazie, che è l’attuale titolo della Cattedrale, bensì quello di Santa Sabina, con le seguenti parole: “In festa Sanctae Sabinae tituli Cathedralis antiquae” (=nella festa di Santa Sabina titolo dell’antica Cattedrale).
Queste notizie il vescovo De Dominicis porta a conoscenza del Cardinale Prefetto della sacra Congregazione dei Riti con lettera del 16 aprile 1885.
Dalla Sacra Congregazione attende risposta a questi due quesiti:
1. “Quale dei due (di Santa Sabina o di Santa Maria delle Grazie) deve ritenersi attualmente per titolo della Cattedrale?”
2. (in subordine) “Può tollerarsi che nell’altare maggiore di essa (Cattedrale) prosegua ad essere esposto il quadro amovibile di Santa Sabina?”

La sollecita risposta al Vescovo dalla Sacra Congregazione è del 7 maggio 1885.
Sua Santità il Papa Leone XIII, poiché Santa Sabina martire “è tenuta in grande onore presso i fedeli che abitano la città ( di Pescina), si è benignamente degnata di permettere che Santa Sabina sia ritenuta come contitolare della Chiesa Cattedrale dei Marsi, con tutti i diritti e i privilegi che competono a contitolari di chiese.”
La Chiesa Cattedrale di Pescina deve avere, perciò, il titolo di “Santa Maria delle Grazie e di Santa Sabina”.
Nel 1886 il vescovo De Dominicis dedica a Santa Sabina uno degli altari laterali all’interno della Cattedrale.

 

CAPITOLO 17 : ANNO 1890. PERCHE' SAN BENEDETTO NON PUO' AVERE LA PARROCCHIA

Nel 1873, come abbiamo già annotato, il Canonico-curato di Pescina Pietro Colantonj, con la sua lettera alla Sacra Congregazione del Concilio, aveva messo in evidenza due grossi problemi:
1. San Benedetto, che sfiora i 4000 abitanti, dipende ancora dall’unica parrocchia  di Pescina;
2. le rendite della parrocchia di Santa Maria delle Grazie sono insufficienti per dare una tranquillità economica al Canonico-curato di Pescina e ai due suoi coadiutori di Venere e di San Benedetto
Per la soluzione di questi due problemi il Vescovo Enrico De Dominicis in data 1° marzo 1890 rivolge un’istanza al Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti del Regno d’ Italia.
E’ da premettere che il periodo di cui stiamo trattando è uno dei più difficili, e non solo dal punto di vista economico, per la vita della Chiesa.
I rapporti tra Chiesa Cattolica e Stato Italiano non sono troppo buoni dopo la fine dello Stato Pontificio e la conquista italiana di Roma (1870). Molti beni della Chiesa sono stati incamerati dallo Stato, che eroga contributi ai parroci, in quale misura e in quali circostanze vedremo in seguito.
Con la sua istanza il Vescovo De Dominicis chiede al Ministro due assegni di congrua per l’erezione in parrocchie delle due coadiurie di Venere e di San Benedetto.
La risposta del Ministro è del 20 aprile 1890. Il Ministro “è dolente di dover significare alla S.V. Ill.ma e Rev.ma che non ha modo di assecondare la sua istanza.”
L’erogazione di congrue per l’istituzione di nuove parrocchie è a carico dell’Economato Generale “al quale i propri scopi e le condizioni finanziarie in cui versa, non consentono di assumere oneri continuativi, come sarebbero appunto i predetti assegni o titoli di congrua.”
E perciò ”si è adottato il sistema di non consentire l’erezione (di nuove parrocchie) se non hanno dotazione sufficiente (minimo 800 lire annue).”
“Per quanto riguarda il richiesto supplemento di congrua, è vero che il fondo per il culto è tenuto a corrispondere tale supplemento alle parrocchie povere, a quelle cioè il cui reddito non raggiunge le annue lire ottocento. Dalla denuncia per tassa di manomorta del Canonico-curato (di Pescina) risulta un reddito netto di lire 1946,24. Anche deducendo quel che il Parroco corrisponde ai Curati di San Benedetto e di Venere, resta un reddito superiore a quello fissato per aver diritto al supplemento di congrua.”
Il Vescovo dei Marsi non si arrende e in data 3 maggio 1890 scrive di nuovo al Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti una lettera in cui:
ï?­ sostiene che il reddito netto di lire 1946,24 lo si ricavava dalla prebenda della Cattedrale in altra epoca. Ora, però, dopo il prosciugamento del lago Fucino, i terreni della Chiesa sono molto deprezzati;
ï?­ fa presente che l’attuale Canonico-curato ha fatto ripetuti reclami per ottenere una riduzione dell’eccessiva tassa di manomorta;
ï?­ avanza al Ministro la proposta di fare gestire la prebenda della Cattedrale da persona di sua fiducia, che soddisfi gli oneri annessi, compreso quello dell’onorario che la legge assegna ai Parroci.  
Le proposte e le richieste del Vescovo De Dominicis non trovano accoglimento.

CAPITOLO 18 : 1905. FINALMENTE LA PARROCCHIA.

Sono passati 318 anni da quando la curia di Pescina mandò Fra Geronimo da Goriano a servire nella chiesa di Santa Sabina con la promessa di corrispondergli 24 ducati annui “per suo subsidio et salario”.
Da allora il sacerdote che opera a San Benedetto, giuridicamente, è stato sempre un dipendente, un coadiutore del Canonico-curato di Pescina, dal quale riceve una quota della sua prebenda.
Abbiamo già evidenziato:
  - la decisione del Canonico-curato di Pescina Pietro Colantonj, nel 1873, di non voler più corrispondere il corrispettivo di 56 ducati al suo coadiuttoredi San Benedetto, per motivi economici;
  - il provvedimento eccezionale preso dal Vescovo De Giacomo (1872-1884) con l’istituzione di una “Cura autonoma” in San Benedetto;
  - la richiesta, non accolta dall’Autorità Governativa, del Vescovo de Dominicis, nel 1890, per l’erezione di una parrocchia a San Benedetto.

Siamo nel giugno dell’anno 1905; da qualche mese è nuovo Vescovo dei Marsi Francesco Giacci.
Al nuovo Vescovo la situazione di San Benedetto senza una propria parrocchia deve apparire così anomala e così paradossale che vuole porvi subito rimedio.
E così con proprio decreto del 2 giugno 1905 Mons. Francesco Giacci istituisce la nuova parrocchia di San Benedetto Abate nella chiesa benedettina.
A San Benedetto era agibile anche la riparata chiesa di Santa Sabina, ma su di essa, come antica Cattedrale, il Capitolo esercitava i suoi diritti, che, nel decreto del Vescovo, sono fatti salvi.
Per l’erezione della nuova parrocchia era necessario acquisire il consenso del Capitolo della Cattedrale e del Canonico-curato di Pescina, il quale doveva cedere al nuovo parroco di San Benedetto una porzione del suo reddito, stabilita in lire 238.
Tra le motivazioni che hanno indotto il Vescovo Giacci a risolvere celermente e definitivamente la plurisecolare questione della parrocchia di San Benedetto ci sono anche queste:
  - San Benedetto non è un villaggio, ma un “oppidum”, una Cittadella, così come l’aveva vista il Vescovo De Giacomo una trentina di anni prima;
  - San Benedetto ha una popolazione di più di cinquemila abitanti;
  - San Benedetto ha un suo territorio;
  - la terra di San Benedetto dista molto da Pescina, residenza del Parroco da cui dipende.

Torneremo su queste annotazioni nell’illustrazione degli avvenimenti in San Benedetto e Pescina degli anni 1907 e 1908.
Il secolo XX si è aperto con una grande conquista e il 2 giugno 1905 è una delle date da non dimenticare nella storia di San Benedetto.

 

****** PARTE SECONDA ******

CAPITOLO 19 : PRIMA META' DEL NOVECENTO. LE LUNGHE E DURE LOTTE PER L' AUTONOMIA COMUNALE.

La dipendenza di san Benedetto da Pescina non era soltanto quella rappresentata dal fatto che i Sambenedettesi erano parrocchiani della Cattedrale di Santa Maria delle Grazie.
Anche amministrativamente San Benedetto era legata a Pescina: cioè, in altre parole, San Benedetto era una frazione del comune di Pescina.
Era da tempo che i Sambenedettesi pensavano di “liberarsi” da tale pesante tutela, ma, per poterlo fare, occorreva che si verificassero alcune circostanze, che si rispettassero alcune regole e alcune leggi.
In particolare che cosa prevedeva la Legge perché una frazione potesse acquisire piena autonomia amministrativa, distaccandosi dal comune capoluogo?
In sostanza occorreva la concomitanza delle seguenti condizioni:
1. che la frazione avesse non meno di 4.000 abitanti;
2. che la separazione fosse richiesta dalla maggioranza degli elettori della frazione;
3. che vi fosse il parere favorevole del Consiglio Comunale;
4. che vi fosse il parere favorevole del Consiglio Provinciale;
5. che la frazione avesse mezzi finanziari sufficienti per sostenere le spese comunali;
6. che tra frazione e capoluogo ci fosse effettiva, naturale separazione territoriale.
Verificatesi positivamente queste condizioni, seguivano l’approvazione del Consiglio dei Ministri e l’emanazione di un Decreto Legislativo del Capo dello Stato, con registrazione presso la Corte dei Conti.
Nel censimento del 1901 a San Benedetto si registrano 3.879 abitanti: ne mancano appena 121 per arrivare a 4.000.
E’ da precisare che, per accertare il numero degli abitanti di una frazione che chiedeva l’autonomia comunale, si poteva far riferimento al risultato dell’ultimo censimento oppure ai registri di Anagrafe, regolarmente tenuti, del Capoluogo o della frazione.
Con il notevole tasso di crescita della popolazione non dovette passare molto tempo perché San Benedetto raggiungesse i 4.000 abitanti.
Siamo nell’anno 1907. Dai registri dell’Anagrafe di San Benedetto risultano 4.203 abitanti: si verifica la prima attesa condizione per poter chiedere l’autonomia.
A San Benedetto è già sorto un vigile Comitato che ha preparato la richiesta per l’autonomia, che ora fa firmare dalla maggioranza degli elettori sambenedettesi.
La documentazione è spedita al Prefetto di Aquila tramite la Sottoprefettura di Avezzano.
Inizia così quello che allo scrivente piace chiamare “Il Cammino della Speranza”. Un cammino che durerà quaranta anni!
Quanti sacrifici, quante sofferenze, quante delusioni e quante umiliazioni in quel quarantennale cammino!
E, poiché la Storia, oltre che testimonianza dei tempi e luce di verità, è anche vita della memoria, è necessario che il ricordo di quel “Cammino della Speranza” resti sempre vivo nella nostra memoria.
E intanto cominciamo a conoscerlo bene quel cammino, che, proiettato nel tempo, è possibile distinguere in quattro fasi:
1. Anni 1907 – 1908: gli anni della grande delusione;
2. Anni 1914 – 1915: gli anni della speranza infranta;
3. Anni ’20 e ’30: gli anni dei Comandanti unici e della lunga stasi;
4. Anni 1944 – 1945: gli anni della storica conquista.

CAPITOLO 20 : ANNI 1907 - 1908. GLI ANNI DELLA GRANDE DELUSIONE.

Con lettera del Prefetto di Aquila in data 20 giugno 1907 al Sindaco di Pescina viene chiesto che il Consiglio Comunale esprima il proprio parere in merito alla richiesta di erezione in Comune autonomo dei frazionisti di San Benedetto.
Al Sindaco di Pescina sarebbero bastate poche settimane, qualche mese per convocare il Consiglio Comunale e per deliberare.
Passa, invece, un anno prima che la pratica sia evasa.
Cerchiamo di capirne il perché.
Anche qui una premessa che ci possa illuminare nella ricerca.
Nei primi anni del Novecento Pescina era, con Celano e Avezzano, uno dei più popolosi comuni della zona. E, se Pescina risultava, tra i tre grandi comuni, più popolosa di Avezzano, lo doveva soprattutto a San Benedetto, che nel 1907 contava 4.203 abitanti. Con la diminuzione di queste 4.203 unità, Pescina sarebbe scesa di parecchi gradini nella graduatoria dei comuni per numero di abitanti.
Da questa constatazione e da altre (come la questione della sede vescovile) che faremo più avanti, si evince che le Autorità comunali di Pescina cercheranno di scongiurare tale evento con tutti i mezzi e non diranno mai “sì” alla erezione di San Benedetto in Comune autonomo.
Si comincia con il temporeggiare, con il far passare il tempo.
Solo dopo quasi cinque mesi il Sindaco convoca il Consiglio Comunale, ma, si badi bene, non per deliberare sulla richiesta dei frazionisti, bensì per nominare una Commissione di studio formata da cinque membri (tre pescinesi e due sambenedettesi). Alla Commissione vengono concessi cinque mesi di tempo per riferire al Consiglio Comunale.
L’inutile Commissione non si riunisce mai per l’opposizione dei Sambenedettesi, per i quali non c’è più nulla da studiare.
Si fanno, però, passare i cinque mesi.
Il 21 marzo 1908 nuova e seconda riunione del Consiglio Comunale: anche questa volta, non per deliberare su quanto richiesto dal Prefetto, ma per decidere circa l’acquisizione del parere di un luminare di cose amministrative.
La scelta del luminare cade su Giannetto Cavasola, avvocato e Senatore del Regno.
All’avvocato Cavasola vengono dati tre mesi per presentare le sue conclusioni.
Il Cavasola, con alcuni giorni di anticipo rispetto alla data fissata, consegna al Sindaco il “parere” scritto su undici pagine.
Se dalle Autorità Comunali di Pescina si voleva acquisire il “parere” di un luminare con l’incarico di trovare tutti gli appigli giuridico-amministrativi e di convenienza per cui San Benedetto non poteva e non doveva diventare Comune autonomo, si deve dire che il Senatore avvocato Giannetto Cavasola non delude i committenti.
Nella conclusione della sua relazione, infatti, leggiamo:
“E’ mio parere, pertanto, che cotesto Consiglio Comunale debba pronunciarsi in senso contrario alla domanda dei frazionisti di San Benedetto dei Marsi, attenendosi ai criteri che ho indicati…. .”      
Esaminiamone alcuni di quei criteri.
- La questione del numero degli abitanti di San Benedetto.
Come abbiamo già annotato, prima condizione per la costituzione di una frazione in Comune autonomo era che il numero degli abitanti non fosse inferiore ai 4.000, da rilevare con riferimento o all’ultimo censimento o dai registri di anagrafe regolarmente tenuti.
A questo proposito Cavasola scrive: ”Non è possibile attenersi alle risultanze dei registri di anagrafe per la semplice ragione che né il Capoluogo né la frazione di San Benedetto dei Marsi hanno registri d’anagrafe in regola”, perciò la popolazione della frazione, “contata in base al censimento del 1901, risulta di 3879 abitanti.”
E, poiché i Sambenedettesi hanno esibito il loro certificato di anagrafe, in cui risultano 4203 abitanti, il Cavasola annota che “L’esibito certificato, nel portare gli abitanti della frazione a 4.203, ha tenuto evidentemente  conto dell’eccezionale e transitorio aumento che si suole colà verificare nella stagione estiva, a causa della forte immigrazione per i lavori campestri del Fucino.”
Ma cosa c’entrano i lavoratori stagionali con l’anagrafe? Quei lavoratori, provenienti da altre province abruzzesi, per rimanere in San Benedetto due, tre settimane per i lavori della mietitura o per la raccolta delle patate, dovevano forse iscriversi all’anagrafe di San Benedetto? Un’assurdità!
Conclusione del Cavasola: “Or dunque, avendo la frazione di San Benedetto una popolazione minore di 4.000 abitanti, essa manca della prima condizione prescritta dalla legge.”
- No alla nascita di un “Comune rachitico”.
Continua il Cavasola: ”La nostra legge, nel precipuo interesse della collettività, favorisce la formazione di grandi Comuni, non già di piccoli. La divisione di un Comune in due deve far in modo che quello che va a crearsi e quello che resta abbiano vitalità”. Ora “se per inammissibile ipotesi San Benedetto venisse costituito in Comune distinto, il Comune di Pescina vedrebbe ad un tratto falcidiate sensibilmente le sue entrate… e San Benedetto entrerebbe bensì nel numero dei Comuni autonomi, ma vi entrerebbe come un organismo rachitico e anemico, quindi nella impossibilità di soddisfare quei bisogni che nella vita comunale devono trovare soddisfazione”.
E si fa riferimento al bilancio del Comune di Pescina, al quale  San Benedetto contribuisce con lire 32.411,74 per le entrate, ricevendone, in uscita, lire 37.565,80 per i servizi.
Per i Sambenedettesi, però, la verità è ben altra: nel bilancio del Comune di Pescina dell’anno 1905 di lire 84.000, San Benedetto contribuisce con lire 8,89 per abitante, Venere con lire 7,40 e Pescina con lire 7,02.
Nella graduatoria delle spese per i servizi quelle per Pescina sono al primo posto.
- San Benedetto non ha un territorio.
Tra le carte consegnate al Cavasola c’è anche una pianta del territorio del Comune di Pescina, con, evidenziata in rosso, la porzione dello stesso spettante, secondo i frazionisti, a San Benedetto.
Avverte il Cavasola: “E’ vero che San Benedetto manca delle condizioni essenziali volute dalla legge perché una frazione possa essere costituita in Comune autonomo, ma, se per improponibile ipotesi, la richiesta dei frazionisti trovasse accoglimento, il governo del re avrebbe la facoltà di stabilire la delimitazione territoriale del vecchio e del nuovo Ente amministrativo.
Ad ogni modo il Comune di Pescina  farà bene a sostenere e soprattutto a documentare in base agli antichi Catasti che nessuna parte del territorio comunale possa spettare di diritto alla frazione, in quanto essa non ne abbia mai avuto alcuno sotto verun titolo.”
- Mancanza di ragioni serie e provate.
Secondo l’avv. Cavasola i frazionisti di San Benedetto nella loro istanza non presentano una qualsiasi ragione atta a spiegare, se non altro, il movente delle loro determinazioni.
Non esiste nessun contrasto di interessi tra Pescina e San Benedetto.
“Il Comune di Pescina non ha fatto per sé la parte del leone trascurando i bisogni né le possibili comodità della frazione, la quale non potrebbe mantenere le attuali condizioni di vita senza sobbarcarsi a maggiori aggravi contributivi.”
Delle conclusioni della relazione Cavasola abbiamo già riferito.
Che contrasto in quelle conclusioni con quanto scritto una trentina di anni prima dal Vescovo dei Marsi Mons. De Giacomo (“San Benedetto un paese che cresce di abitanti ogni giorno e proiettato verso la potenza e lo splendore di una popolosa città”) e dal Vescovo dei Marsi Mons. Giacci appena due anni prima (“A San Benedetto viene istituita una Parrocchia autonoma perché ha un suo territorio e più di cinquemila abitanti”)!
Il Sindaco di Pescina, acquisito il parere dell’avvocato Cavasola, convoca il Consiglio Comunale per il 15 giugno 1908 in seduta straordinaria. 

 

CAPITOLO 21 : 15 GIUGNO 1908. IL GIORNO DELLA GRANDE DELUSIONE.

Dunque il gran giorno, quello delle gravi decisioni, è arrivato.
Tutto è nelle mani, per meglio dire nelle lingue (con un “sì” o con un “no”) di undici Pescinesi e di sette Sambenedettesi. Sono assenti un Consigliere pescinese ed uno sambenedettese.
Se si tiene conto dei numeri, è evidente che non si combatte ad”armi” pari. Si dirà che nel gioco di una maggioranza e di una minoranza c’è l’essenza della Democrazia.
      I sette Consiglieri sambenedettesi presenti sono: avv. Filippo Ottavi, Arcangelo Di Genova, Giuseppe di Genova, Luigi Tarquini, Giovanni Tarquini, dott. Francesco Ippoliti, Vincenzo Cerasani. E’ assente il dott. Sisto Ippoliti.
Tra i Consiglieri presenti spicca la figura del dott. Francesco Ippoliti (“i medechitte” per i Sambenedettesi).
Egli stava scrivendo o stava raccogliendo dati per il suo libro “Storia morale e amministrativa del Comune di Pescina”: conosceva, perciò, molto meglio dell’avvocato Cavasola i problemi e le condizioni di San Benedetto e i rapporti tra Capoluogo e frazione.
L’oggetto della seduta è: “Istanza dei frazionisti di San Benedetto”, ma nella sostanza è la relazione o parere dell’avvocato Cavasola a tenere banco.
Relatore ufficiale è l’avvocato Goffredo Taddei, che illustra i quattro punti della relazione:
- San Benedetto non ha 4.000 abitanti;
- San Benedetto nascerebbe Comune rachitico, perché non avrebbe mezzi sufficienti;
- San Benedetto non ha un territorio proprio, giacché è sorto su territorio del Capoluogo;
- Il Capoluogo ha fornito la frazione “di tutti i servizi esistenti in Pescina”.
I lavori della seduta stanno svolgendosi in un clima abbastanza surriscaldato, e non per colpa del caldo del mese di giugno.
Il dott. Francesco Ippoliti controbatte tutti i punti delle tesi che l’avvocato Taddei, con la relazione Cavasola in mano, sta illustrando al Consiglio. Il relatore viene continuamente interrotto dal dott. Ippoliti, che ogni tanto rivolge parole non certo benevole all’indirizzo del Senatore avvocato Cavasola, autore di quelle tesi.
Conclusa la relazione, l’avvocato Taddei propone di votare un suo ordine del giorno: “Il Consiglio, visto il parere dell’avvocato Cavasola, delibera di dare parere contrario all’istanza dei frazionisti di San Benedetto.”
Il dott. Ippoliti, che dal Presidente era stato più volte richiamato all’ordine per le continue interruzioni nei confronti del relatore e “per le parole scorrette rivolte all’indirizzo del Senatore Cavasola”, ribadisce l’inattendibilità del parere di costui.
Si dice, ma di ciò non c’è traccia nel verbale della seduta, che l’indomito e arrabbiatissimo dott. Ippoliti sia stato espulso dall’aula consiliare. Questo perché fino alla votazione finale non ci sono più suoi interventi.
Eppure qualche altro “ruggito” contro la successiva proposta dell’avvocato Giacomo Palladini il dott. Ippoliti l’avrebbe certamente tirato fuori.
Cerchiamo di capire il perché seguendo il verbale.
Il Consigliere Palladini ribatte le osservazioni del dott. Ippoliti tranquillamente e senza interruzioni, segno che il clima si è abbastanza raffreddato. Anche un grande fuoco, si sa, va lentamente spegnendosi se non c’è chi lo alimenta di continuo.
E così l’avvocato Palladini tira fuori la sua proposta. In sintesi, i Consiglieri di San Benedetto dicano se vogliono votare subito oppure prendersi una quindicina o più giorni per:
- studiare ponderatamente il parere a stampa del Cavasola;
- chiedere altri pareri (a proprie spese) di altri luminari esperti di cose amministrative;
- presentare le osservazioni opportune scritte contro il parere del Cavasola.
Vengono concessi ai Consiglieri sambenedettesi cinque minuti per decidere.
La seduta viene effettivamente sospesa per cinque minuti.
La proposta dell’avvocato Palladini e quella sospensione di cinque minuti si commentano da sole.
In quei pochi istanti i Consiglieri di San Benedetto non hanno neppure il tempo di guardarsi in faccia e scambiarsi due parole per concordare un secco “no” alla proposta da inserire a verbale.
Allo scoccare del sessantesimo secondo del quinto minuto si riapre la seduta.
Il relatore Taddei, a nome della Giunta, fa mettere subito a votazione il suo ordine del giorno.
Chiede ed ottiene la parola il Consigliere di San Benedetto avvocato Filippo Ottavi, che dice:
- come è possibile sostenere che il numero degli abitanti di San Benedetto sia ancora quello di otto anni prima?
- se i cittadini di San Benedetto sono parte integrante del Comune di Pescina, vuol dire che anche essi sono comproprietari dei beni del Comune di Pescina: è solo questione di stabilirne la quantità.
L’avvocato Ottavi, quindi, propone che venga respinto l’ordine del giorno del Taddei e venga accolta l’istanza dei frazionisti di San Benedetto.
L’assessore Taddei sbrigativamente dice che le eccezioni del Consigliere Ottavi trovano confutazione nella memoria del Cavasola e insiste per l’immediata votazione del suo ordine del giorno.
E’ stato già spiegato che dire “sì” alla relazione Cavasola significa dire un “no” alla richiesta dei frazionisti.
Si vota. L’esito della votazione è scontato. Undici “sì” degli undici Pescinesi, sette “no” dei sette Sambenedettesi.
E’ il giorno della grande delusione.
Il clima torna a surriscaldarsi nella Sala Consiliare e diventa infuocato a San benedetto.
Come si poteva digerire, tra l’altro, il fatto che San Benedetto non poteva diventare Comune autonomo perché non aveva un suo territorio e ancora che San Benedetto era sorto su un territorio di Pescina?
Scoppia così quella che, nella storia dei due paesi, è nota come “guerra di San Benedetto contro Pescina”.
Come in tute le guerre, chi ci rimette è sopratutto chi non ne ha colpa. E così i poveri contadini di Pescina, che, per recarsi a coltivare i terreni del Fucino, devono passare per San Benedetto, subiscono aggressioni dai Sambenedettesi. Altrettanto capita ai Sambenedettesi, quando, per il disbrigo di pratiche varie, sono costretti a recarsi a Pescina.
Insomma un grave problema di ordine pubblico fatto conoscere dalla stampa in tutta Italia.
E quando la situazione si farà più incandescente e ci scapperà anche il morto (un giovane di Pescina), sarà fatto intervenire un reparto di Cavalleria dell’Esercito.

CAPITOLO 22 : 1914 - 1915. GLI ANNI DELLA SPERANZA INFRANTA.

Si riprende, intanto, il cammino della speranza.
Nel censimento del 10 giugno 1911 a San Benedetto vengono registrati 4245 abitanti.
In precedenza, nell’agosto del 1908, anche il Consiglio Provinciale di Aquila aveva espresso parere negativo all’istanza dei Sambenedettesi “perché scarsamente documentata”.
Ora, nell’ aprile 1914, viene rinnovata la domanda di autonomia con allegati i numerosi documenti richiesti.
Questa volta non ci sono temporeggiamenti. Il Prefetto di  Aquila manda a Pescina come suo delegato il dott. Mario Trinchera, Segretario presso il Ministero dell’Interno, con l’incarico di presiedere una Commissione mista, che avrebbe dovuto “studiare” la domanda presentata dai frazionisti di San Benedetto.
La Commissione è convocata per il 3 giugno 1914 e per il 5 giugno è fissata la riunione del Consiglio Comunale, su richiesta del Prefetto.
I Consiglieri sambenedettesi non partecipano né all’una né all’altra riunione. Motivi addotti: “Circostanze eccezionali e anormali  condizioni di spirito pubblico a tutti noto” e ancora “Ragioni di sicurezza pubblica”.
Il 5 giugno 1914 il Consiglio Comunale di Pescina, con la sola partecipazione dei Consiglieri del Capoluogo, dà, per la seconda volta, parere negativo alla richiesta di autonomia dei Sambenedettesi.
Le motivazioni addotte sono ancora quelle della relazione Cavasola.
A San Benedetto non si accetta passivamente la scontata decisione negativa del Consiglio Comunale. Tutto come previsto, ma da un’apposita Commissione o Comitato è stata già preparata una lunga memoria per il Ministro dell’Interno che viene spedita a Roma il 6 giugno 1914, il giorno successivo a quello della delibera del Consiglio Comunale di Pescina.
Al Ministero dell’Interno i termini del “conflitto” tra Pescina e San Benedetto erano ben noti, se non altro per i gravi problemi di ordine pubblico a partire dal 1908. Comunque, nella memoria se ne rifà tutta la lunga storia.
Particolarmente accorato è l’appello al Ministro dell’Interno: “Dopo i fatti di sangue accaduti, ogni persistenza nella comunione di interessi sarebbe impossibile e darebbe luogo a inconvenienti diuturni tali da renderne inefficace lo svolgimento di ogni attività. Ogni salvezza, quindi, è soltanto nella separazione che, tenendo gli uni lontani dagli altri, calmerebbe gli animi e farebbe tornare, cessata ogni ragione di contesa, cordiali rapporti di vicinato.”
L’attività della Commissione non si ferma qui.
In data 1° agosto 1914 viene inviata una memoria al Sottoprefetto di Avezzano.
La Sottoprefettura era un organo giuridico-amministrativo di tramite tra la Prefettura (organo provinciale) e un certo numero di Comuni che formavano un Circondario.
Avezzano era sede di Sottoprefettura.
Nel documento inviato al Sottoprefetto vengono esposte le ragioni, a favore dell’autonomia di San Benedetto, che non era stato possibile esporre a Pescina a causa della mancata partecipazione dei Sambenedettesi alla seduta del Consiglio Comunale del 5 giugno 1914.
Con questa lettera si prega il Sottoprefetto “di corredare gli atti allegati alla domanda di autonomia di San Benedetto dei Marsi e da comunicare a chi di dovere.”
E, infine, in data 5 agosto 1914 viene inviata una lettera ai componenti del Consiglio Provinciale, organo che può esprimere parere diverso da quello espresso dal Consiglio Comunale.
Dai Consiglieri Provinciali San Benedetto “aspetta una parola di pace che ponga fine all’insorto conflitto e che, con il voto favorevole all’autonomia, ridoni quella tranquillità tanto necessaria allo sviluppo economico, morale e civile di un paese.”
A San Benedetto si è convinti che questa volta si sia imboccata la via giusta. La richiesta di autonomia è stata esaurientemente documentata e le relative motivazioni sono state portate a conoscenza, direttamente, delle Autorità Provinciali e Governative.
Nel mese di novembre 1914 un fatto nuovo.
Il Sindaco di Pescina, con una lettera al Presidente della Deputazione Provinciale, si dichiara favorevole all’autonomia comunale di San Benedetto.
E’ da ritenersi sincera quella nuova disposizione del Comune di Pescina?
Chi scrive ritiene di sì per una serie di considerazioni, tra cui:
- la popolazione di Pescina era stanca di quella “guerra” con San Benedetto. Essa non aveva dimenticato che molte famiglie di Pescina erano di antica origine sambenedettese. Se allora fosse stato possibile risolvere la questione con un referendum, la maggioranza dei Pescinesi si sarebbe espressa per l’erezione della frazione di San Benedetto in Comune autonomo, non curandosi delle, per loro incomprensibili, argomentazioni del Cavasola e della nutrita schiera di avvocati presenti nel Consiglio Comunale.
- non era solo la questione di San Benedetto a preoccupare gli Amministratori di Pescina. Negli ultimi due o tre anni si erano intensificate le voci del trasferimento della Sede Vescovile. Nei decenni precedenti c’erano stati altri tentativi, ma le richieste degli Avezzanesi avevano trovato sempre un ostacolo nell’opposizione dei Vescovi. Ora le cose stavano cambiando.
Dal 1911 è Vescovo dei Marsi Mons. Pio Marcello Bagnoli.
Già a Roma, appena nominato, il Vescovo Bagnoli è informato che “la Diocesi dei Marsi aveva un cattivo nome”.

Effettivamente non furono pochi i difficilissimi problemi che egli cercò di risolvere. C’era anche la questione del trasferimento della Sede Vescovile.
Che Pescina fosse una sede piuttosto periferica nel vasto territorio della Diocesi dei Marsi, non occorreva fare uno studio particolare per rendersene conto.
Nel primo giro di visite alle Parrocchie il Vescovo constata personalmente i gravi disagi che molti sacerdoti devono affrontare per recarsi a Pescina.
Vengono raccolte lamentele anche da parte dei laici.
E sono proprio queste situazioni di disagio dei sacerdoti, queste lamentele della popolazione che il vescovo Bagnoli fa presente a Roma.
Intanto Avezzano continua a “scalpitare”.
Con i suoi 13.140 abitanti è il più grande Comune della Marsica; è sede della Sottoprefettura e capoluogo di Circondario; è notevole centro commerciale in continua espansione, è centro di importanti vie di comunicazione stradali e ferroviarie; è sede di importanti uffici statali e dell’amministrazione delle terre del Fucino.
Aspira ad essere anche sede di Diocesi.
Intanto nel dicembre 1914 dal Vaticano, dove le questioni della Diocesi dei Marsi sono ben conosciute, arriva una lettera a Mons. Bagnoli. Gli si consiglia di procurarsi in Avezzano un appartamentino dove poter ricevere, una volta alla settimana, i sacerdoti o i laici che incontrano difficoltà a recarsi a Pescina. E anche una raccomandazione: vigilare perché nulla sia fatto o detto che possa “urtare” in Pescina.
Nel frattempo da Aquila c’è la notizia che il 16 novembre 1914 il Consiglio Provinciale all’unanimità ha espresso parere favorevole per l’erezione in Comune autonomo della frazione di san Benedetto.
Manca solo l’approvazione delle Autorità Governative, e i Sambenedettesi sono in fiduciosa attesa.
Ecco il nuovo anno 1915.
Nella logica delle previsioni l’anno nuovo porterà a San Benedetto l’autonomia comunale e a Pescina la certezza che la Sede Vescovile non sarà spostata.
Ma la logica dell’uomo non sempre coincide con la logica della Storia.
Oltre che testimone dei tempi, luce di verità e vita della memoria, la Storia è anche maestra della vita.
Questa esigente maestra, per ammonire l’uomo, qualche volta si serve del paradosso. Un avvenimento imprevisto, e i piani dell’uomo vengono sconvolti, capovolti. I paradossi della Storia!
Non sono passate neppure due settimane del nuovo anno e il 13 gennaio 1915 un terrificante terremoto devasta tutta la Marsica.
A San Benedetto il 65% della popolazione perde la vita sotto le macerie: rimangono vive appena 1.500 persone.
Altra decimazione della popolazione per i morti della guerra 1915-1918 e per la terribile influenza del 1918, detta “Spagnola”.
San Benedetto non ha più quei 4.000 abitanti necessari per l’erezione in Comune autonomo.
Una speranza infranta!
Nella logica della Storia c’erano per San Benedetto altri trenta anni di sofferenze, di umiliazioni, di lotte.
E per Pescina?
Per effetto della nuova situazione creata dal terremoto Pescina è “costretta” a vincere una grossa “battaglia” nella “guerra” con San Benedetto. Ma, a causa dello stesso terremoto, è destinata a perdere nella “lotta” per il trasferimento della sede vescovile in Avezzano.
Anche questa è una Storia, lunga, difficile, con toni a volte tragici, ma va raccontata in altro contesto.
E, per chiudere questo capitolo, una considerazione, scritta anche questa, paradossalmente, nella logica della Storia: nel 1580 le case diroccate, semidistrutte, insomma le macerie della “splendidissima città di Valeria” provocarono la traslazione della Sede Vescovile dalla antichissima e preziosissima Cattedrale di Santa Sabina alla nuova Cattedrale di Santa Maria delle Grazie in Pescina.
A distanza di oltre tre secoli saranno ancora le macerie, questa volta di Pescina, a far sì che la Sede Vescovile sia trasferita dalla Cattedrale di Santa Maria delle Grazie alla nuova Cattedrale di San Bartolomeo Apostolo in Avezzano.

 

CAPITOLO 23 : ANNI '20 E '30. GLI ANNI DEI COMANDANTI UNICI E DELLA LUNGA STASI.

La quasi totalità delle case di San Benedetto sono rase al suolo o rese inagibili. Passata la bufera del terremoto, della guerra e della “Spagnola”, i superstiti iniziano la difficile e dura opera di ricostruzione.
Un aiuto ci viene dalle città di Bologna e di Roma. Sorgono così due nuovi quartieri: quello delle “Baracche bolognesi” e quello delle “Baracche romane”.
Anche i superstiti del Comitato per l’autonomia tornano ad occuparsi della questione “San Benedetto Comune autonomo”.
Il Ministro dell’Interno aveva tutte le carte in regola per pronunciarsi a favore di San Benedetto, ma, poiché dalle Autorità non si avevano segnali per la definizione della pratica, negli anni 1919 e 1920 tornano i disordini e i consueti problemi dell’ordine pubblico.
E’ a questo punto che il Sottoprefetto suggerisce al Regio Commissario, che in quel momento reggeva il Comune di Pescina, di affidare al Cav. Cesare Pietroiusti, Vicesegretario nel Comune di Avezzano, l’incarico di procedere agli accertamenti voluti dalla Legge, per decidere se San Benedetto abbia o meno i requisiti per diventare Comune autonomo.
Il Regio Commissario di Pescina affida l’incarico al Pietroiusti con la nota n°992 del 3 aprile 1920.
Il Pietroiusti si mette al lavoro e, a distanza di un anno, in data 25 aprile 1921, consegna la sua relazione al committente.
Un confronto della relazione del Pietroiusti nel 1921 con quella dell’avvocato Cavasola nel 1908 è d’obbligo.
Per l’avvocato Cavasola, come abbiamo visto, San Benedetto non aveva nessun requisito per diventare Comune autonomo; per il Cav. Pietroiusti, invece, San Benedetto i requisiti richiesti dalla Legge li ha tutti e lo dimostra punto per punto.
Nella conclusione della relazione Pietroiusti troviamo scritto: “Comunque, però, di una cosa occorre persuadersi, e cioè che non cesseranno le aspre lotte tra quelle due popolazioni divenute, anche per i fatti verificatesi, irriconciliabili, sino a quando il Governo non ne rimoverà la causa, assicurando ad entrambe la stessa autonomia. Solo allora ritornerà la calma, e la tranquillità, tra quelle laboriose e buone popolazioni.”
Acquisita la nuova documentazione, si invia il tutto, tramite la Prefettura, al Ministro dell’Interno, che, secondo il Pietroiusti, avrebbe deciso di prendere in considerazione la richiesta di San Benedetto.
Ma così non è stato!!
Forse un punto debole nella relazione del Pietroiusti c’era: nel giro di cinque o sei anni la popolazione di San Benedetto poteva aver recuperato le deficienze verificatesi nel numero degli abitanti con quel 65% di morti per il terremoto?
Per ottenere l’autonomia, il requisito di avere una popolazione non inferiore ai 4.000 abitanti era, per una frazione, sempre necessario.
Ecco cosa scrive, in proposito, il Pietroiusti nella sua relazione: “Feci compilare da persona di mia fiducia e sotto la mia diretta vigilanza un censimento speciale, e mi risultò che la popolazione che costituisce oggi la frazione di San Benedetto è di 4.188 abitanti.”
E spiega così questa miracolosa crescita: “Reputo necessario chiarire che, se nel terremoto del 13 gennaio 1915 perirono diverse centinaia di persone, immediatamente dopo, per il ritorno in quell’abitato dei cittadini che avevano perduti tutti i parenti, e per l’immigrazione da tutte le parti d’Italia di intere famiglie, trasferitesi stabilmente colà per ragioni di lavoro, il numero degli abitanti fu subito raggiunto.”
Forse anche qualcun altro aveva contato gli abitanti di San Benedetto e il risultato finale non coincideva con quello del Pietroiusti.
Una cosa è certa, però: gli abitanti di San Benedetto continuavano a crescere di numero.
Le famiglie sambenedettesi erano allora molto prolifiche; erano tanti i bambini con i nomi di Sestino, Settimio, Ottavio, Novemio o Decilio, per indicare l’ordine di nascita e il numero dei figli.
Se ne vedono i frutti nel censimento dell’anno 1931, quando San Benedetto fa registrare 4.080 abitanti.
Nell’anno 1936 a Casalbordino, nella tipografia di Riccardo de Arcangelis, viene stampato un opuscoletto di una trentina di pagine dal titolo: “La Marsica, il Fucino, San Benedetto dei Marsi” del cav. Pietroiusti, allora Segretario del Comune di Fondi, in provincia di Littoria, oggi Latina.
Nell’opuscolo sono riportate notizie storiche e geografiche della Marsica e una breve storia del prosciugamento del lago Fucino.
La parte più importante dell’opuscolo è, però, la relazione che il Pietroiusti aveva scritto nel 1921 e che viene riportata integralmente. Pietroiusti spiega il perché.
Da quella relazione è venuta “La maggior soddisfazione che io potessi mai desiderare, cioè che la mia istruttoria era stata riconosciuta completa e regolare e che di conseguenza il Ministero aveva ritenuto, in massima, di poter addivenire alla costituzione del nuovo Comune (di San Benedetto).”
Ora, a distanza di quindici anni, nel ritornare sull’argomento “San Benedetto Comune autonomo”, il Pietroiusti certamente ha dovuto porsi queste due domande:
- perché nel 1921 la pratica, pur così completa, si è arenata?
- perché, anche dopo il censimento del 1931 San Benedetto, con i suoi 4.080 abitanti ufficialmente riconosciuti, continua ad essere frazione di Pescina?   

Il Pietroiusti ha una “sua” risposta a tutti e due gli interrogativi. Vediamo cosa scrive:
Nel 1921 “Il Fato non doveva essere propizio, perché in quell’epoca incominciarono a divenire più seri e preoccupanti i movimenti socialcomunisti per i continui e sensibili progressi che le dottrine demagogiche facevano nelle classi meno abbienti. Anche il popolo di San Benedetto, che per le sue speciali circostanze aveva una mentalità adusata alle opposizioni ed alle lotte, rimase facilmente conquistata, ed anzi formò una delle sezioni più accese e più battagliere della Marsica.
Il Governo, che era già assorbito dai violenti contrasti e dai numerosi scioperi che continuamente si verificavano in tutta la Penisola, credette opportuno attendere gli eventi, rinviando ogni decisione nei riguardi di San Benedetto.”
Secondo Pietroiusti, quindi, fu colpa del Fato e di certe circostanze politico-sociali se San Benedetto nel 1921 non poté diventare Comune autonomo, pur avendone tutti i requisiti.
Eppure nel 1921 in Italia si era ancora in regime democratico.
Passa poco tempo, in Italia si instaura la dittatura, cessano gli scioperi, ma perché San Benedetto è sempre frazione di Pescina?
Anche per questo secondo interrogativo il Pietroiusti ha una sua risposta, certamente in sintonia con il clima politico che nel 1936 si respirava in Italia. A Roma c’è il Comandante unico, che il Pietroiusti definisce “il formidabile novello Titano”. Anche i Comuni sono amministrati da Comandanti unici, i Podestà.
Annota l’autore dell’opuscoletto: “Nel nuovo sistema, in cui l’autorità dei capi proviene dall’alto….. che cosa poteva significare la questione del Comune autonomo di San Benedetto che aveva avuto la sua base nell’ambizione della popolazione…? Ora il clima è cambiato.”
Leggiamo ancora: “I giovani di Pescina e di San Benedetto, non ancora contagiati dai contrasti particolaristici dei loro paesi, si trovano benissimo e senza rancore insieme sotto i segni del Littorio… .”
E con queste premesse l’opuscolo non poteva non terminare che con queste parole: “Ed ora San Benedetto, pur restando frazione di Pescina, inquadrata fedelmente nel Regime che soddisfa e provvede adeguatamente ai suoi bisogni, senza trovarsi in alcuna inferiorità marcia serrata e compatta… .”
Non si sa se il cav.  Cesare Pietroiusti, prima di dare alle stampe l’opuscoletto, rileggendo la sua relazione del 1921 nella parte finale (“non cesseranno le aspre lotte… sino a quando il governo non ne rimoverà la causa, assicurando ad entrambe -Pescina e San Benedetto- la stessa autonomia”) e la parte finale dell’opuscolo appena trascritta sopra, non ne abbia notata la macroscopica contraddizione.
E che i bisogni di San Benedetto venissero pienamente soddisfatti e che la frazione non si trovasse più in alcuna inferiorità rispetto al Capoluogo, ne abbiamo un esempio emblematico proprio negli anni Trenta.
Per capire bene il fatto che stiamo per raccontare bisogna tornare indietro al 1915.
Nel terremoto del 13 gennaio 1915, oltre alle case, furono distrutte o danneggiate molte chiese.
A San Benedetto furono distrutte sia la Chiesa Parrocchiale di San Benedetto Abate che la Cattedrale di Santa Sabina.
E, come per le esigenze abitative furono costruite baracche, così, per le esigenze di culto, furono costruite delle baracche-chiese. In un elenco delle parrocchie della Marsica, per la costruzione di baracche-chiese, San Benedetto vi figura per l’assegnazione di una baracca-chiesa di metri 12x4. L’elenco, redatto il 23 aprile 1915, è firmato da Fra Pio M. Vescovo.
Come per la ricostruzione delle case lo Stato erogava contributi a privati cittadini, così venivano erogati contributi ai Comuni per la ricostruzione di edifici pubblici, tra cui le chiese.
Negli anni Trenta in Pescina c’erano tre splendide chiese: quella di Santa Maria delle Grazie, quella di Sant’Antonio e quella di San Berardo, chiese solo danneggiate dal terremoto e riparate.
Proprio negli anni Trenta al Comune di Pescina vengono erogati dallo Stato finanziamenti per la ricostruzione di chiese: un’occasione perché in San Benedetto potesse essere ricostruita almeno una delle chiese distrutte.
Questo nella logica delle previsioni, ma non nella realtà.
La nuova chiesa viene costruita nel Capoluogo, a Pescina.
E così i Pescinesi godranno di una quarta, anche questa splendida, chiesa e i Sambenedettesi si terranno ancora per molti anni la loro cara baracca-chiesa dell’immediato dopo-terremoto. Una chiesa così piccola che bastavano cento persone per riempirla. Quando c’erano funzioni religiose particolari, con afflusso di molte persone, si celebrava fuori, all’aperto, come dimostrano testimonianze fotografiche.

 

CAPITOLO 24 : ANNI 1944 - 1945. GLI ANNI DELLA STORICA CONQUISTA.

Il secondo quinquennio degli anni Trenta e il primo quinquennio degli anni Quaranta sono un periodo di guerre: la guerra italiana d’Africa per la conquista dell’Etiopia, la guerra civile spagnola e poi la lunga, terribile, seconda guerra mondiale.
In questo tragico contesto era impensabile che ci si potesse occupare dei problemi di una frazione, che, avendone tutti i requisiti, voleva diventare Comune autonomo.
Gli eventi incalzano. Il 25 luglio 1943 è la caduta del Fascismo. Gli eserciti alleati hanno iniziato la conquista del territorio italiano. E poi l’Armistizio dell’8 settembre 1943 e l’Italia spaccata in due. Il Sud del Regno Sabaudo occupato dagli Alleati e il Centro-Nord, dove è tornata l’autorità del Fascismo, occupato dall’esercito tedesco.
Il 10 giugno 1944 è per San Benedetto, come del resto per molti paesi, una data molto importante sotto molti aspetti:
- finisce l’occupazione dei soldati tedeschi, che stanno attestandosi più a nord;
- arriva una colonna di soldati neozelandesi a testimoniare che ci sono stati:
1. un capovolgimento della situazione militare con l’occupazione degli eserciti degli Alleati. Da notare che ad arrivare per primo a San Benedetto è un reparto di soldati provenienti dalla lontana Oceania, dalla Nuova Zelanda.
2. un capovolgimento politico: non si è più nella repubblica Sociale italiana, ma, nuovamente, nel Regno d’Italia.
3. un capovolgimento nella gestione degli Enti Locali, con l’allontanamento dei “Comandanti unici”, dei Podestà, e il ritorno al sistema democratico.
Ed è proprio questo punto 3. ad interessare il nostro ormai ripreso ‘cammino della speranza’. Procediamo con ordine.
Quando una città o un paese venivano liberati dall’occupazione dei soldati tedeschi, il Comando Militare Alleato insediava, per l’amministrazione dei Comuni, una Giunta. Di solito i membri della Giunta venivano scelti dall’incaricato del Comando Alleato in collaborazione o su segnalazione dei Comitati di Liberazione Nazionale.
La nomina e il funzionamento di queste Giunte sono un primo passo verso il ritorno della democrazia, quando le scelte degli Amministratori potranno essere fatte mediante libere elezioni.
La Giunta così nominata doveva rimanere in carica fino alle nuove prime elezioni amministrative, che, secondo quanto voluto dagli Alleati, dovevano tenersi subito dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale.
E, come sappiamo, l’Italia sarà completamente liberata il 25 aprile 1945 e le nuove prime elezioni amministrative si terranno il 24 marzo 1946.
Torniamo a Pescina. Una curiosità in due domande:
- da quanti membri era formata la Giunta?
- chi furono i primi Amministratori del Comune di Pescina dopo il lungo periodo della dittatura?
I membri della Giunta, insediata nel giugno 1944 dal Comando Militare Alleato, erano tre, tanti quanti i tre agglomerati urbani che formavano il Comune: Pescina, Venere e San Benedetto dei Marsi.
I nuovi tre Amministratori  del Comune di Pescina, in ordine di anzianità anagrafica, furono: il pescinese Giambattista Barbati, il venerese Mauro Marchione e il sambenedettese Sebastiano Simboli.
Una giunta di giovani, possiamo dire: appena una novantina di anni la somma dell’età dei tre.
E solo dei giovani, con il loro entusiasmo, con il loro altruismo, con il loro spirito di sacrificio, potevano essere chiamati a gestire una situazione certamente non facile.
Non è esagerato dire che quei tre avevano l’onere di amministrare il Comune di Pescina in uno dei momenti, sotto molti aspetti, più difficili della sua storia.
I disagi della popolazione per la lunga e disastrosa guerra, per l’occupazione di soldati stranieri, per i bombardamenti subiti nella Marsica, per la scarsa disponibilità di generi di prima necessità. E ancora la presenza di tanti sfollati dalle zone di combattimento, bisognosi di tutto.
Non mancavano preoccupazioni per l’ordine pubblico, di solito di una certa precarietà dopo sconvolgimenti politici come quelli verificatisi, e per il possibile riemergere di antichi non sopiti rancori.
Molto precaria anche la situazione finanziaria con la casse comunali vuote, come vuote erano anche le casse dello Stato.
Certe situazioni vissute in prima persona rimangono impresse nella mente per tutta la vita, ma chi scrive ha voluto essere confortato nel ricordo anche dalle carte di quell’epoca, per esempio dalla Delibera di giunta n°28 del 22 maggio 1945, relativa all’approvazione del bilancio di previsione del 1945.
Da premettere che le imposte, che allora potevano dare maggiore gettito per le casse del comune, erano: l’imposta di consumo, l’imposta di famiglia e l’imposta sul bestiame.
Nel compilate il bilancio di previsione per l’anno 1945, la Giunta, rispetto al bilancio del 1944, aveva operato i seguenti aumenti: 25% per l’imposta di consumo, 60% per l’imposta di famiglia e il 250% per l’imposta sul bestiame, oltre aumenti fino al 100% per imposte, con minore gettito, su patenti, industrie, commerci e professioni.
Ma tutto questo non era bastato a far quadrare i conti.
Il Prefetto di Aquila in data 5 aprile 1945 aveva restituito al Comune di Pescina il bilancio di previsione dell’esercizio 1945, con l’invito a rettificarlo in conseguenza dei provvedimenti adottati dal Governo in materia di finanza locale.
In breve, questo voleva significare che, essendo il Comune di Pescina tra quelli i cui bilanci erano pareggiati mediante contributi statali, bisognava dimostrare che era stato fatto tutto il possibile nell’imposizione dei tributi locali. E così il bilancio dell’esercizio 1945 fu rettificato con:
- la delibera di una nuova tariffa sulle imposte di consumo;
- con la dichiarazione che si stava procedendo a nuovi accertamenti riguardanti l’imposta di famiglia. 
Questa, brevemente, la situazione generale degli anni 1944-1945 e questi i gravi e difficili problemi che la Giunta doveva cercare di risolvere. Con un lavoro duro, continuo, disinteressato.
Le riunioni di Giunta si tenevano, come ovvio, sempre nel Municipio di Pescina.
Questo rappresentava un sacrificio in più per i rappresentanti di San Benedetto e di Venere, perché, tra l’altro, non c’erano mezzi di comunicazione idonei tra il Capoluogo e le frazioni. Per andare da San Benedetto a Pescina e viceversa, i mezzi più sicuri e sempre disponibili erano soltanto i propri piedi. Si iniziava la marcia degli otto chilometri, tra andata e ritorno, a piedi, con la speranza, spesso vana, di essere presi a bordo da uno dei tanti carrettieri che andavano o tornavano dai lavori del Fucino.
Chi scrive non sa se oggi possa interessare o possa essere recepito dalla coscienza collettiva quanto detto e quanto ancora si potrebbe dire della vita del Comune di Pescina di più di sessanta anni fa.
Una semplice testimonianza, però, per tutti coloro che quella storia non l’hanno neppure sentita raccontare: la Giunta, che operò nel Comune di Pescina negli anni 1944 e 1945, si trovò ad amministrare la miseria e le preoccupazioni della povera gente di Venere, di San Benedetto, di Pescina, degli sfollati e cercò di assicurare a tutti un minimo di servizi essenziali con i proventi della imposta sulle pecore, sulle capre, sugli asini, sulle mucche, sui cavalli, nella zona, per fortuna, ancora numerosi.
Ma torniamo a San Benedetto. Urge riprendere il cammino della speranza.

 

CAPITOLO 25 : SAN BENEDETTO NEGLI ANNI 1944 - 1945.

Le difficoltà, le preoccupazioni, sommariamente messe in evidenza per Pescina, si riscontravano anche nelle due frazioni.
A San Benedetto forse qualche problema in più.
A Pescina e a Venere non c’erano, per esempio, le “Baracche Bolognesi”, quelle baracche, come abbiamo già annotato, costruite subito dopo il terremoto del 1915 con i contributi del Comune di Bologna. Dovevano servire come ricoveri provvisori, ma dopo trenta anni erano ancora lì, con tutti i segni di degrado. In molte di esse non c’era più l’originario pavimento di tavole, tolte per essere messe al fuoco nei lunghi e gelidi inverni. In altre parole queste baracche non avevano più nulla per essere chiamate ricoveri umani. Eppure dentro quelle baracche erano nati e continuavano a nascere tanti bambini.
Ecco intanto una breve e, certamente, incompleta immagine di San Benedetto in quel mese di giugno 1944: un paese quasi abbandonato a se stesso, gli abitanti in numero maggiore di quelli di oggi, le abitazioni neppure la metà di quelle odierne. In circolazione neanche un’automobile, qualche rara motocicletta e persino pochissime biciclette, Nessuna famiglia aveva il telefono e quelle che possedevano un apparecchio radio si contavano sulle dita delle mani. Nessuna strada era asfaltata.
E poi il dolore di molte famiglie per i propri cari morti in guerra e l’ansia di tante altre per il ritorno dei prigionieri presso i due opposti schieramenti, alleati e tedeschi.
Ancora la presenza di tanti sfollati che non avevano più nulla da offrire o da vendere per sfamarsi.
E inizia l’invasione dei Romani in cerca di qualche chilo di farina o di fagioli.
Unico passatempo, ma per i soli uomini, le serate in “Cantine”, dove si facevano le ore piccole e si beveva qualche bicchiere di troppo.
Gli impiegati del Comune che operavano a San Benedetto erano molto pochi: un applicato di segreteria, due guardie, tre addetti alle pulizie (uno anche con funzione di banditore), il custode del Cimitero. Con questo personale si faceva quel che si poteva.
Naturalmente avevano rapporti con il Comune un medico condotto e un’ostetrica.
Nel Municipio di San Benedetto funzionava un regolare Ufficio Anagrafe. Per ogni famiglia c’era una scheda, che veniva continuamente aggiornata nel numero dei componenti.
Quelle schede ci furono di grande aiuto in occasione di un fatto straordinario che stiamo per raccontare.
Si era alla fine dell’estate del 1944. Un giorno si fermarono davanti al Municipio tre camion militari alleati. I soldati autisti, saliti in ufficio, chiesero dove poter scaricate i generi alimentari che avevano portato per San Benedetto. Fummo colti tutti di sorpresa, perché non c’era stato nessun preavviso di quell’arrivo. Ma dove trovare un locale idoneo?
A togliere dall’imbarazzo chi scrive fu l’avvocato Nelio Cerasani, con la consegna delle chiavi di un grande magazzino facente parte di un pastificio dismesso.
Scaricato tutto quel ben di Dio (farina, sale, zucchero, lardo, carne in conserva ed altro), si pensò ad una sollecita ed equa distribuzione alla popolazione: cosa che fu resa possibile consultando, appunto, le schede delle famiglie.
Con l’aiuto di tanti volontari le operazioni si conclusero entro un paio di settimane.
Rivedo ancora una lunga e ordinata fila di uomini, donne e ragazzi in attesa di poter entrare nel magazzino e le persone che ne uscivano con la farina dentro federe oppure in sacchettini preparati per l’occasione.
Abbiamo accennato all’invasione dei Romani. Essi venivano immancabilmente in Municipio a chiedere il rilascio di un documento di autorizzazione a trasportare a Roma piccole quantità di generi alimentari.
Per combattere il mercato nero dei generi alimentari, erano stati predisposti, per il controllo, dei posti di blocco; ce n’era uno sulla via Tiburtina nei pressi di Arsoli: un passaggio obbligato per tutti quelli che dovevano, dalla Marsica, andare verso Roma. Il controllo delle merci da parte delle forze dell’ordine era molto severo e quel documento rilasciato dal Municipio di San Benedetto rappresentava un provvidenziale lasciapassare.
Come a Pescina, e come del resto in tutti gli altri paesi, anche a San Benedetto c’erano preoccupazioni per la precarietà dell’ordine pubblico dopo sconvolgimenti politici e militari come quelli verificatisi. Proprio nel giorno del ritiro dei Tedeschi e prima dell’arrivo di truppe alleate a San Benedetto, si era verificato un brutto fatto di sangue.
Nominata la Giunta per il governo del Comune, il Municipio, sia a Pescina che a San Benedetto, divenne un prezioso punto di riferimento per tutti, un luogo dove potevano essere risolte pacificamente molte questioni.
Il Municipio era considerato la casa di tutti. Possiamo farne un esempio.
Subito dopo la liberazione del 10 giugno 1944 il Partito Comunista Italiano aveva aperto una sezione in un locale, preso in affitto, proprio di fronte al Municipio. Dopo alcuni mesi il locale dovette essere restituito alla proprietaria. In attesa del reperimento di altro locale idoneo, un dirigente di tale partito mi chiese se era possibile conservare nel mio ufficio in Municipio uno scatolone con carte, documenti ed altro della sezione. La richiesta fu accolta. Non è che nelle abitazioni degli iscritti a quel partito non ci fosse un posto per quello scatolone, ma ad una casa privata fu preferita la casa comune, di tutti.
Era anche questo il Municipio negli anni 1944-’45.
Tornando alle preoccupazioni per l’ordine pubblico, ci furono due occasioni in cui la situazione sembrava che stesse per precipitare.
Una prima volta quando un esponente politico della sinistra fu ferito da colpi di arma da fuoco, sparati da un compaesano che fu subito arrestato. La tempestività del soccorso e la bravura del chirurgo nel vicino ospedale di Pescina salvarono la vita al ferito e questo contribuì a rasserenare un po’ gli animi.
Una seconda volta quando ci fu una specie di sommossa contro i Carabinieri. Il fatto, per essere capito, va raccontato in tutti i suoi particolari.
Negli anni 1944 e 1945 ci fu un buon raccolto di grano. Oltre che alla stagione favorevole, l’abbondanza era dovuta all’aumentata superficie dei terreni coltivati a grano..
Molte piccole aziende agricole, a causa del richiamo alle armi degli uomini, erano gestite da donne. Queste, trascurando le coltivazioni più impegnative delle patate e delle bietole da zucchero, seminavano solo grano.
Il grano, come genere di prima necessità, non poteva essere venduto nel libero mercato, ma bisognava portarlo all’ammasso presso i Consorzi Agrari. Il prezzo pagato dal Consorzio era piuttosto basso, non remunerativo, insomma di molto inferiore a quello delle libere vendite.
Era da prevedere che tutti cercassero di non portare all’ammasso tutto il loro grano, per venderne almeno una parte a quello che suole essere chiamato “mercato nero”. Nella fattispecie di nero c’era, però, anche quel prezzo basso, poiché molte famiglie avevano l’unico sostentamento nel ricavato della vendita del grano.
In San Benedetto c’era tutto un via vai di compratori che provenivano non solo dalla Capitale, ma anche da molti altri paesi. Si compravano pane, farina e poi anche il grano.
Finché si trattò dell’acquisto di modeste quantità, c’era tolleranza. Abbiamo accennato ai permessi di trasporto rilasciati in Municipio. In seguito si vedevano circolare per San Benedetto dei camioncini. Un giorno un compratore aveva esagerato nell’acquisto: un carico di grano che non poteva sfuggire al controllo delle forze dell’ordine. Il camionista fu fermato dai Carabinieri nei pressi del Municipio. La contestazione per quel carico non riguardava solo il compratore, ma anche i tanti venditori di grano.
I cittadini presenti al fatto parteggiavano per il compratore. A mano a mano che passava il tempo i pochi contestatori divennero una folla e così il maresciallo e due carabinieri si trovarono circondati da gente che urlava contro di loro. La situazione poteva degenerare da un momento all’altro.
Ad un certo punto si sentì sparare un colpo in aria e quasi contemporaneamente si vide un giovane precipitare a terra da un albero. Era quasi naturale che si mettessero in relazione lo sparo e la caduta del giovanotto e tutti pensarono a qualcosa di molto serio.
Ma fu solo un momento, perché Francesco (è questo il nome del simpatico personaggio) si rialzò da solo, stropicciandosi gli occhi con le mani, come se stesse ridestandosi da un lungo sonno.
Questo contribuì a calmare gli animi dei presenti e provocò una risata generale quando si conobbe il motivo di quella caduta.
Francesco, per godersi lo spettacolo della folla che minacciava i Carabinieri, era salito su uno degli alberi della piazza, ma a quello sparo aveva preso tanta paura che, non controllandosi più, era precipitato a terra.

CAPITOLO 26 : 17 GENNAIO 1945. "LA FESTA DI SANT' ANTONIO".

Tra le feste religiose che si celebrano ancora oggi a San Benedetto, particolarmente sentita è anche quella di Sant’Antonio abate, protettore degli animali, nel giorno 17 del mese di gennaio.
A quei tempi era uno spettacolo affascinante vedere mucche, cavalli, asini, maiali, capre, ecc. che, fatti affluire presso la Fonte Vecchia, nell’attuale Villa Comunale, erano in attesa del passaggio della processione e della rituale benedizione di Sant’Antonio.
Durante la guerra quel raduno di animali non era stato più tenuto.
Nel programma della festa del 17 gennaio 1945 era previsto il ripristino della benedizione degli animali presso la Fonte Vecchia.
Questa volta ci si mise il cattivo tempo a tentare di impedirla. Nei due o tre giorni precedenti ci fu una forte nevicata ed era impensabile che si potesse effettuare la processione con la statua di Sant’Antonio portata a spalle da quattro uomini con tutta quella neve che copriva le strade, a meno che non si fosse provveduto a ripulire tutto il percorso della processione. Ci voleva la collaborazione di tanta gente, che andava, però, avvertita.
Oggi siamo tutti sommersi da pubblicità che ci arrivano da radio, televisione, da intere pagine di riviste e giornali, da carte che troviamo nelle nostre cassette della posta. In quegli anni si davano le notizie alla popolazione o con manifesti murali, che pochi leggevano, o, soprattutto, tramite il banditore, un personaggio importante nella vita del paese.
Quando si sentivano i rituali tre colpi di trombetta, che precedevano il messaggio del banditore, tutti si fermavano o uscivano di casa per ascoltare.
A San Benedetto il servizio di banditore era effettuato da due dei tre addetti alle pulizie, che ancora oggi molti ricordano, se indicati con il loro soprannome.
Il primo, detto ‘Ciafrechijje’, era il banditore titolare; l’altro, detto ‘Mbecate’, era il banditore supplente. Il banditore titolare era orgoglioso di quel ruolo. Bastava comunicargli il significato del messaggio ed egli lo rielaborava con parole sue, sempre in dialetto. Così, quando ricevette l’incarico di far conoscere alla popolazione l’invito a togliere la neve dalle strade per il passaggio della processione, egli così andava gridando nei punti strategici del paese: “S’avvérte al pubbliche: se vuléte vedé la preggessione de Sante Antonje, puléte la neve addò passe.”
La popolazione rispose all’invito e tutto il percorso della processione fu ripulito. E si poté effettuare così anche la benedizione degli animali presso la Fonte Vecchia.
Di quella processione di Sant’Antonio, di quella nevicata e della pulitura delle strade c’è una eloquente testimonianza fotografica.
Nella foto è possibile vedere anche un cane che segue la processione. Se poi ricordiamo anche il cane che si accovacciò dentro la chiesa di Santa Sabina ai tempi di fra Geronimo e quel cane che qualche anno fa seguiva non solo le processioni, ma anche tutti i cortei funebri fino all’interno del Cimitero, bisognerebbe concludere che a San Benedetto i cani, in fatto di devozione, hanno a volte qualche cosa da insegnare a noi umani.
  


 

CAPITOLO 27 : LA LOTTA PER L' AUTONOMIA COMUNALE.

Gli anni 1944 e 1945 rappresentano la quarta e decisiva tappa nella quarantennale lotta per l’autonomia comunale.
Anche questa volta, come nelle fasi precedenti, si forma un “Comitato per l’Autonomia”.
Il Comitato nasce all’interno di un partito politico. Vediamo come e perché.
Abbiamo già annotato che a San Benedetto, subito dopo la liberazione del 10 giugno 1944, l’unico partito ad aprire una sezione fu il Partitio Comunista Italiano. E tale rimase la situazione per alcuni mesi. Altre forze politiche stentavano ad organizzarsi. Nell’autunno 1944, però, aprì una sezione anche il Partito Liberale Italiano.
Il Partito Liberale, sappiamo, era uno dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, ma di modesta consistenza rispetto al Partito Comunista, al Partito Socialista e alla Democrazia Cristiana. Questo a livello nazionale.
In San Benedetto, invece, un fatto straordinario. Gli iscritti al Partito Liberale furono tanti, che non è esagerato dire che ci furono più iscrizioni a San Benedetto che in altri centri della Provincia messi insieme.
La straordinarietà del fatto non sfuggì alla Segreteria Nazionale del Partito Liberale e alcuni esponenti della stessa vollero conoscere di persona quell’isola liberale nel cuore dell’ Abruzzo. E fu così che l’avvocato Nelio Cerasani strinse amicizia con l’onorevole Manlio Brosio, grosso personaggio politico, di cui dovremo parlare in seguito.
L’avvocato Cerasani ebbe modo di rappresentare all’onorevole Brosio le aspirazioni di San Benedetto a diventare Comune autonomo e le difficoltà che nel passato ne avevano impedito la realizzazione.
L’onorevole Brosio promise tutto il suo appoggio quando la pratica sarebe arrivata all’esame del Consiglio dei Ministri.
Nacque così all’interno della sezione del Partito Liberale il primo nucleo del Comitato per l’Autonomia comunale, i cui esponenti principali erano lo stesso avvocato Nelio Cerasani e il maestro elementare Caniglia Ferrante, meglio conosciuto come Ferrero.
Era evidente, però, che quel Comitato non poteva e non doveva essere espressione di un partito politico.Il problema riguardava tutta la popolazione, il cui appoggio era necessario nel riprendere la lotta. La partecipazione fu aperta a tutti.
E la risposta dei cittadini fu tale che più che di un “Comitato per l’Autonomia”, si sarebbe dovuto parlare di “Popolo per l’Autonomia”.
Un popolo che non fece mai mancare il suo interessamento e il suo incoraggiamento, giacché, per la verità, date le circostanze in cui si era costretti ad operare, la fatica era tutta sulle spalle di un ristrettissimo gruppo, come vedremo.
Ricostituito il Comitato, si riprese subito il cammino della speranza.
Noi già conosciamo il difficile e lungo iter della pratica che coinvolgeva:
- San Benedetto, per la richiesta scritta della maggioranza dei cittadini iscritti nelle liste elettorali con firme autenticate da un notaio,
- Pescina, per il prescritto parere degli Amministratori;
- L’Aquila, per il prescritto parere del Consiglio Provinciale;
- Roma, per l’approvazione del Consiglio dei Ministri, per l’emanazione del Decreto Legislativo del Capo dello Statpo e per la registrazione della Corte dei Conti.
E poi c’era l’apposito ufficio della Prefettura che istruiva la pratica e raccoglieva dati.
Se ci si voleva servire dell’esperienza del passato, erano ben conosciute le deliberazioni nel 1908 e nel 1914 del Consiglio Comunale di Pescina e le gravi conseguenze che ne derivarono per il doppio parere negativo e le deliberazioni del Consiglio Provinciale, che si era espresso in senso contrario nel 1908 e in senso favorevole nel 1914.
Dall’esperienza del passato, però, potevano essere recepiti anche la volontà del popolo sambenedettese tutto di liberarsi finalmente della plurisecolare tutela di Pescina e l’esempio di tanti nostri concittadini che nei Comitati e fuori di essi avevano lottato e avevano fatto notevoli sacrifici per una democratica conquista.
Ma le strategie del 1944-’45 non potevano essere quelle del passato, sia perché si erano verificate impensabili, nuove circostanze, sia perché la lotta andava combattuta su fronti diversi.
Il Comitato del 1944-’45 aveva, rispetto ai Comitati del passato, due vantaggi. Per capire bene il primo dobbiamo tornare a Pescina, alla Giunta, agli Amministratori.
Si diceva di nuove impensabili circostanze, la principale delle quali è da considerarsi unica e irripetibile nella storia del Comune di Pescina. Stiamo parlando della Giunta, formata da tre amministratori, con pari dignità rappresentativa dei tre plessi urbani che formavano il Comune di Pescina.
I tre amministratori, animati da reciproco rispetto e da vicendevole stima, nelle frequenti riunioni della Giunta, cercavano di risolvere, nel migliore dei modi e con un’oculata gestione degli scarsi mezzi finanziari, tanti difficili problemi della vita comunale. Si discuteva, si facevano proposte, si confrontavano le soluzioni, si deliberava. A rileggerle oggi quelle delibere, non ne troviamo una sola presa a maggioranza: si arrivava sempre ad una soluzione unanime.
Il Sindaco Barbati era consapevole dei sacrifici che i rappresentanti delle due frazioni facevano nel recarsi a Pescina. Quando sapeva che io ero arrivato a piedi da San Benedetto e che in prospettiva c’era anche il ritorno a casa a piedi, mi diceva :”Non scoraggiarti! Quando San Benedetto sarà Comune autonomo questi sacrifici non li farà più nessuno.”
Quando San Benedetto sarà Comune autonomo…! Proprio così, perché nel nostro programma c’era anche l’autonomia comunale di San Benedetto.
Fin dal primo incontro, nel giugno 1944, Giambattista Barbati mi aveva assicurato che all’eventuale richiesta del Prefetto per il prescritto parere della Giunta avrebbe dato il suo “sì” all’autonomia comunale di San Benedetto e, da autentico signore qual era, mantenne la promessa, come avremo occasione di vedere.
Dunque i tempi erano veramente cambiati!
Dall’Amministrazione Comunale di Pescina non sarebbero più venuti, contrariamente a quanto era avvenuto nel passato, ostacoli alla realizzazione di un sogno che i Sambenedettesi accarezzavano da tanto tempo.
Il secondo vantaggio ci veniva da Roma, per il promesso interessamento dell’onorevole Manlio Brosio.
L’onorevole Brosio è stato veramente un grosso personaggio politico. Nel 1945 era Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel governo presieduto dall’onorevole Ferruccio Parri. Sarà in seguito ambasciatore a Mosca, a Parigi, a Londra, a Washington e infine Segretario Generale della NATO.
Anche con queste buone prospettive, non mancavano ostacoli da superatre, con una lotta che non si presentava affatto facile. Soprattutto contro due di questi ostacoli si concentrarono l’attenzione e l’azione del Comitato: contro il tempo e contro la burocrazia.
Lotta contro il tempo! Come abbiamo già annotato, una volta completata la liberazione di tutto il territorio nazionale, dovevano essere indette le prime regolari elezioni amministrative. E noi sognavamo che San Benedetto dovesse partecipare a quelle prime elezioni come Comune autonomo e non più come frazione del Comune di Pescina. Troppo scottanti erano i ricordi di quei Consigli Comunali di dodici Pescinesi e otto Sambenedettesi. E’ pur vero che la Storia non si fa con i ‘se’ e con i ’ma’: un interrogativo, però, è lecito porselo: “Quale risposta avrebbe dato il primo Consiglio Comunale di  Pescina del dopoguerra e del dopodittatura alla richiesta di autonomia della frazione di San Benedetto dei Marsi?”
Lasciamo senza risposta questo interrogativo e torniamo alla storia, ai fatti.
Il Comitato aveva, dunque, fretta di concludere al più presto la lotta per l’autonomia, ben sapendo che ogni giorno, ogni settimana e ogni mese che passavano ci avvicinavano non solo alla tanto attesa liberazione e alla fine della guerra, ma anche alle previste prime elezioni amministrative.

In realtà il tempo fu ancora lungo e la lotta risultò più difficile del previsto. Alleata del “tempo” in questa specie di corsa ad ostacoli si dimostrò essere la burocrazia.
Sappiamo che la burocrazia in Italia, a volte a torto, più spesso a ragione, non ha mai goduto buona fama per la cronica lentezza, per quel groviglio di passaggi delle pratiche da una stanza all’altra dello stesso ufficio, per il cumulo di carte da allegare agli atti.
Prima di raccontare quale fu il rapporto del Comitato con la burocrazia, due doverose annotazioni:
- la prima riguarda l’Amministrazione Comunale di Pescina. I lavori dei tre della Giunta erano abbastanza gravosi, si sentiva il bisogno di essere affiancati da idonei collaboratori, specialmente a Pescina e a San Benedetto. E così, nel tardo autunno del 1944, furono chiamati, per cooptazione, altre persone. Per San Benedetto la scelta cadde su Gasbarri Fidio, noto come Fidiuccio, che si dimostrò ottimo collaboratore.
- la seconda è relativa ai lavori del Comitato, nel quale si riconosceva la quasi totalità della popolazione di San Benedetto. Personalmente sono convinto che, se nel 1944 avessimo avuto a disposizione tutti i mezzi di locomozione presenti oggi a San Benedetto, più della metà dei Sambenedettesi sarebbe salita su centinaia di automobili per andare, preceduti magari da tutti i motociclisti che vediamo ogni anno nella festa di Santa Maria Goretti, a L’Aquila, per spingere la macchina burocratica a mettersi finalmente in moto. E sono convinto anche che non ci sarebbe stato bisogno di una seconda invasione di quella carovana. Diciamo questo per dare un’idea del clima che si respirava allora a San Benedetto.
Ma lasciamo i “se” e torniamo ai fatti, che furono ben diversi.
A L’Aquila, presso la Prefettura, c’era un apposito ufficio, che, una volta istruita la pratica della richiesta di autonomia amministrativa dei Sambenedettesi, procedeva ad una serie di adempimenti, il primo dei quali era l’acquisizione, su richiesta del Prefetto, del parere dei tre della Giunta Comunale di Pescina.
La strategia del Comitato del 1944-’45 fu diversa da quella del Comitato del 1907-’08, quando le ragioni della frazione di San Benedetto furono affidate alle poche carte allegate alla domanda, ma, soprattutto, alle argomentazioni, vorrei dire agli “urli” in Consiglio Comunale di Pescina del dott. Francesco Ippoliti contro le tesi dell’avv. Cavasola. E diversa anche da quella del Comitato del 1914, quando le ragioni della frazione di San Benedetto furono affidate a lettere inviate al Sottoprefetto di Avezzano, al Presidente del Consiglio Provinciale e al Ministro dell’Interno, mentre i Consiglieri Comunali di San Benedetto non partecipavano più alle sedute del Consiglio Comunale di Pescina.
La strategia del Comitato del 1944-’45 consistette nel seguire, con interventi personali, la pratica presso l’ufficio dove questa si trovava. Si dette così inizio ad una serie interminabile di viaggi, all’Aquila prima, e a Roma in seguito.
Prima di iniziare i viaggi della speranza dovettero essere risolti due importanti problemi:
- chi doveva viaggiare?
- con quale mezzo viaggiare?

Relativamente al primo interrogativo il Comitato decise che la responsabilità di seguire attentamente l’iter della pratica fosse di un ristrettissimo gruppo: Caniglia Ferrante, Cerasani Nelio e Simboli Sebastiano.
Per quanto riguarda i mezzi per viaggiare, nella storia della lotta per l’autonomia ne entrano solo tre: una motocicletta di media cilindrata, un taxi Fiat Balilla e un rimorchietto di appena un metro quadrato trainato da una motocicletta di bassa cilindrata. Per la verità il taxi fu utilizzato una volta sola per andare all’Aquila e una sola volta anche il rimorchietto per andare a Roma. Nella quasi totalità dei viaggi, dunque, fu utilizzata la motocicletta di proprietà dell’avv. Nelio Cerasani. I viaggi furono effettuati dall’autunno del 1944 alla fine dell’estate del 1945, per una decina di mesi.
Fatto passare un ragionevole lasso di tempo, necessario all’istruzione della pratica e all’esame dei documenti, si cominciò ad andare a L’Aquila ogni quindici giorni.
Nell’apposito ufficio della Prefettura si domandava, si sollecitava, si raccomandava.
Il tempo passava veloce, si arrivò alle feste di Natale 1944, durante le quali pensavamo di raccogliere i frutti dei nostri viaggi. Una pia illusione! 
Essendo trascorso più di un mese dall’ultimo viaggio, nella terza decade del gennaio 1945 si pensò di riprendere le nostre “visite” a L‘Aquila. Abbiamo ricordato le forti nevicate nei giorni precedenti la festa di Sant’Antonio.  Impossibile andare con la motocicletta; qualcuno pensò ad un taxi. A San Benedetto non c’erano automobili. Ci venne in aiuto un simpatico pescinese, Renato Gentile, con la sua Fiat Balilla.
Ci infilammo in cinque dentro il taxi. Si arrivò a L’Aquila poco prima della chiusura degli uffici, in tempo per fare la nostra ennesima raccomandazione. Avevamo fretta di tornare a San Benedetto, dato che il tempo non prometteva niente di buono. A Rocca di Cambio una violenta bufera di neve ci impedì di proseguire. Tornammo indietro. Era ormai buio. Bisognava pernottare a L’Aquila, in attesa che il mattino seguente uno spazzaneve ripulisse la strada. E qui un grosso problema, anzi due problemi: i soldi per mangiare qualche cosa e i soldi per pagare l’albergo. Da buoni amici tutti e cinque tirammo fuori dalle tasche i nostri spiccioli fino all’ultimo centesimo. Si fece la somma e il risultato fu questo: o si andava a cena senza poter pagare l’albergo o si andava a dormire in albergo saltando la cena. Optammo per quest’ultima soluzione.
Il giorno seguente, prima di mezzogiorno, eravamo di nuovo nei pressi di Rocca di Cambio. Qui non solo non era stato possibile far funzionare lo spazzaneve, ma era in corso una nuova bufera.
Impossibile tornare a San Benedetto attraverso il Piano delle Rocche, occorreva trovare un percorso alternativo. E il bravo autista Renato suggerì: L’Aquila, Rieti, via Cicolana, Avezzano. Così fu possibile tornare a San Benedetto con 48 ore di ritardo rispetto al preventivato e con un grosso problema da risolvere: il costo del viaggio.
Proviamo ad immaginare quanto può costare il noleggio di una macchina con autista per più di due giorni, il costo della benzina per un percorso lungo almeno tre volte rispetto a quello previsto, il costo della camera d’albergo per noi cinque e per il tassista. In poche parole il costo del viaggio, con tutti gli sconti possibili, fu tale che noi, quasi tutti “papàdipendenti”, cancellammo la parola ‘taxi’ dai nostri futuri viaggi.
E la motocicletta di Nelio continuò a macinare chilometri.
Era passato l’autunno, era passato l’inverno, se ne stava andando la primavera. L’Italia tutta era stata liberata il 25 aprile 1945 e la pratica per l’autonomia di San Benedetto era ancora lì, a “dormire” in Prefettura.
Non si nasconde che avemmo un attimo di sconforto. Sembrava che la nostra lotta contro il tempo fosse persa. Da un momento all’altro potevano essere indette le prime elezioni amministrative e il nostro sogno che San Benedetto potesse parteciparvi da Comune autonomo stava svanendo.
Ma fu solo un attimo!
Bisognava rimboccarsi le maniche ed agire, occorreva recuperare almeno in parte il tempo perso. Chiedemmo un colloquio al Prefetto. Ci fu accordato.
Si era nella prima decade di maggio. Il giorno dell’appuntamento toccò a Nelio e a che scrive montare sulla motocicletta e partire.
Nei nostri numerosi viaggi capitavano ogni tanto cose strane, a volte di una certa serietà, a volte di una certa banalità, ma sempre in grado di annullare o far ritardare i nostri appuntamenti.
E anche quel giorno una banalità occorsa a chi scrive stava per far ritardare un importante e decisivo appuntamento.
Con la motocicletta, che non aveva poggiapiedi, superammo il bivio di Cerchio sulla via Tiburtina. Il tratto successivo era dritto e in discesa. Si correva più velocemente. E proprio in quella discesa colpii con il piede sinistro un grosso sasso. Nessun guaio al piede, per fortuna, ma la scarpa, invece… : una vistosa apertura tra le suole! Tornare a San Benedetto per cambiare le scarpe avrebbe comportato un ritardo per l’appuntamento.
A L’Aquila, mentre camminavo per andare in Prefettura, alzando il piede sinistro, si sentiva schioccare un tic-tac, che richiamava lo sguardo e qualche sorriso dei passanti. Fui costretto a tenere ferma la suola con uno spago.
 

In compenso fummo soddisfatti della visita al Prefetto, ma, poiché volevamo vedere i risultati concreti, tornammo alla carica circa una settimana dopo. Era il 18 maggio 1945.
In Prefettura finalmente una buona notizia: era stata scritta e firmata, ed era così pronta per la spedizione, la lettera di richiesta agli Amministratori di Pescina del parere per l’Autonomia della frazione di San Benedetto.
Quella lettera porta la data del 18 maggio 1945 con n°12798 div.2/1 di protocollo.
L’idea dell’ansia di concludere in fretta da cui eravamo presi è dimostrata dal fatto che, per guadagnare tempo, chiesi di portare io stesso a mano quella lettera a Pescina.
Mi fu risposto che quel documento era diretto agli Amministratori di Pescina e non al Comitato per l’Autonomia di San Benedetto. Feci presente che io non ero solo membro del Comitato di San Benedetto, ma anche uno dei tre Amministratori del Comune di Pescina.
Non ci furono così difficoltà ad aderire alla mia richiesta.
La pratica era ora a Pescina.
Gli altri due membri della Giunta conoscevano bene tutte le disavventure dei nostri viaggi. E sapevano anche della nostra “febbre della fretta”. E da questa “febbre” furono ‘contagiati’ anch’essi, per dimostrare solidarietà al rappresentante di San Benedetto.
La Giunta era ormai abituata alle lunghe sedute. Questa volta c’era un lavoro che richiedeva un impegno serio e responsabile.
La Giunta dei tre doveva dare l’avvio alla chiusura di un ciclo storico molto importante per Pescina, della durata di 365 anni, con il distacco della frazione di san Benedetto e l’avvio per San Benedetto di un nuovo ciclo storico con la sua Autonomia.
E così il 19 maggio 1945, nel Municipio di Pescina, iniziò una “tre giorni” di lavori tutta dedicata a San Benedetto. C’erano molti riscontri da effettuare, molti nodi da sciogliere.
Una scelta tra i più importanti:
1) Il bilancio di previsione dell’anno finanziario 1945. Delle vicende di questo bilancio abbiamo già detto nelle pagine precedenti. Ora, con le rettifiche richieste dalla Prefettura, esso era pronto per l’approvazione che doveva precedere la delibera sull’Autonomia di San Benedetto, in quanto anche le entrate accertate, e le conseguenti spese, erano oggetto di divisione fra i due nuovi Comuni.
2) Accertamento del numero degli abitanti di San Benedetto. Era sempre in vigore la disposizione sul numero di almeno 4000 abitanti della frazione che voleva diventare Comune Autonomo. Fonti per l’accertamento: i risultati dell’ultimo Censimento o dei Registri di Anagrafe regolarmente funzionanti. Preferimmo far riferimento all’ultimo Censimento del 1931 (nel 1941 non c’era stato censimento a causa  della guerra), che aveva registrato per San Benedetto 4080 abitanti.
3) Accertamento del numero delle firme degli elettori di San Benedetto sulla domanda di Autonomia. La domanda di Autonomia doveva essere corredata dalle firme della maggioranza degli elettori di San Benedetto. Si accertò che la richiesta era stata sottoscritta da 822 cittadini con l’annotazione del notaio Fenoaltea Francesco, il quale dichiarava che le firme erano tutte autentiche e tutte appartenenti a cittadini residenti nella frazione di San Benedetto dei Marsi. Per l’accertamento del numero degli elettori richiedenti occorreva servirsi delle liste elettorali, ma queste non erano state ancora ufficialmente compilate. Erano stati fatti gli estratti degli elenchi ed inviati ai Casellari Giudiziari per il visto. Questi estratti non erano stati ancora restituiti al Comune, ma la Giunta aveva tutti gli elementi per attestare che gli 822 richiedenti costituivano la maggioranza degli elettori della frazione.
4) Bilanci dei due nuovi Comuni per il rimanente periodo dell’anno 1945. La frazione di San Benedetto, se costituita in Comune autonomo, avrebbe presentato il seguente bilancio di previsione:
                                    Entrate: lire 948.602,97
                                    Uscite: lire 948.602,97
Pescina, con la frazione di Venere, avrebbe costituito un nuovo Comune, con il seguente bilancio di previsione:
                          Entrate: lire 1.443.453,38
                          Uscite: lire 1.443.453,38

CAPITOLO 28 : LA LUNGA SEDUTA DEL 22 MAGGIO 1945.

Fatti tutti i riscontri e accertamenti, sciolti tutti i nodi, eccoci alla fine della lunga e faticosa maratona.
Era il 22 maggio 1945, una data storica per San Benedetto: il giorno in cui venivano raccolti i frutti di tanti sacrifici, di tanti anni di lotte e di attese.
La Giunta fu convocata con il seguente ordine del giorno:
1) Delibera n° 28 relativa al bilancio di previsione dell’esercizio 1945;
2) Delibera n° 29: parere sulla costituzione in Comune Autonomo della frazione di San Benedetto dei Marsi.
Di questo bilancio abbiamo già detto quasi tutto. Solo per soddisfare la eventuale curiosità di chi ama fare confronti con il passato, si può aggiungere che il bilancio del Comune di Pescina, con più di 10.000 abitanti, per l’anno 1945, approvato dalla Giunta con la delibera n° 28 del 22 maggio 1945, aveva i seguenti risultati:
                                 Entrate lire 4.397.11,28
                                 Uscite lire 4.397.11,28
somma corrispondente a Euro 2.271 (duemiladuecentosettantuno) di una settantina di anni dopo.
Approvato il bilancio del Comune di Pescina per l’esercizio 1945, senza interruzione, “a proseguimento”, si passò all’approvazione della delibera n° 29: parere sulla richiesta di Autonomia dei frazionisti di San Benedetto dei Marsi.
Di questa delibera conosciamo già alcuni punti, illustrati dalla Giunta durante i lavori di preparazione, ma essa merita di essere conosciuta tutta intera, parola per parola. Sarà, perciò, riportata in appendice.
Ed ecco la parte finale della delibera:
“Considerato che ricorrono tutti gli estremi per potersi far luogo alla richiesta costituzione in Comune Autonomo della frazione di San Benedetto dei Marsi, la GIUNTA
                                           UNANIME
                                           DELIBERA
per le risultanze e i motivi di cui sopra, di esprimere siccome esprime parere favorevole alla costituzione in Comune Autonomo della Frazione di San Benedetto dei Marsi.”
Prima di apporre le firme allo storico documento i tre della Giunta fecero una riflessione ed ebbero una intuizione.
Essi erano ben consapevoli che, come abbiamo già annotato, si chiudeva per Pescina, con il distacco della frazione di San Benedetto, un ciclo della sua storia durato 365 anni, mentre per San Benedetto si apriva un nuovo ciclo storico con la sua autonomia. A noi, però, non bastava solo questo. I 365 anni passati insieme non potevano e non dovevano essere buttati via nel dimenticatoio. Un certo rapporto di “parentela” tra Pescina e San Benedetto si era pur sempre creato. E poi, quel grosso nucleo di Pescinesi di lontana origine sambenedettese….
Da questa riflessione una nostra intuizione: perché le comunità di Pescina e di San Benedetto, questa volta da brave sorelle con pari dignità, non creavano servizi di collaborazione, oltre quello veterinario?
Fu fatto scrivere in quella delibera n° 29 del 22 maggio1945, a futura memoria, “che pertanto qualora si costituisse in Consorzio qualche altro servizio, la situazione dei futuri enti ne resterebbe maggiormente avvantaggiata.”
Firmato il documento dai tre della Giunta e dal Segretario del Comune Leone Nazzareno, il primo a fare gli auguri al nascituro Comune di San Benedetto dei Marsi fu proprio il Sindaco di Pescina Giambattista Barbati, il quale prese la mia mano destra tra le sue mani in una stretta lunga e calorosa. Quando ripenso a quell’evento, sento ancora il calore di tale stretta di mano.     
Commosso da tanta solidarietà, ringraziai Giambattista Barbati, Mauro Marchione, il Segretario Leone Nazzareno e tutti gli impiegati del Comune, molto attivi in quei tre giorni di intenso lavoro.
Solo per questo era stato possibile dare, dopo appena tre giorni, risposta alla richiesta del Prefetto.
A me non rimaneva che correre a San Benedetto per portare la bella notizia che i Sambenedettesi aspettavano da quaranta anni.
Eravamo nel mese di giugno 1945. La nostra pratica era all’esame del Consiglio Provinciale. Ancora alcuni viaggi a L’Aquila con la motocicletta dell’avvocato Nelio Cerasani per sollecitare il parere del Consiglio Provinciale e per la successiva, immediata, spedizione delle carte al Ministero dell’Interno.

 

CAPITOLO 29 : IL MESE DI LUGLIO 1945 A SAN BENEDETTO.

I nostri viaggi a L’Aquila erano finiti. Era il mese di luglio 1945 e la nostra pratica era a Roma.
In quegli anni luglio era uno dei mesi più belli e più attesi dell’anno. Era il mese del raccolto del grano, e il grano significava farina e pane. Si cancellava il ricordo del mese di maggio, un mese che non finiva mai perché in molte famiglie non c’erano più farina e pane. Quando i lavoratori agricoli venivano assunti per la zappatura del terreno coltivato a patate o per lo sfoltimento delle piantine delle barbabietole da zucchero, essi chiedevano giornalmente come acconto del loro salario almeno un chilo di pane. Ne mangiavano per le loro due “colazioni” della lunga giornata lavorativa e facevano del tutto per portarne a casa una porzione per i figli.
Nel mese di luglio tornavano una certa serenità e la gioia per quei pacchettini di grano che entravano anche nelle case di coloro che non avevano terreni da coltivare.
Quando si mieteva o con la mietitrice o con i falcetti a mano, molte spighe non finivano nei covoni e rimanevano disperse a terra. E così era possibile vedere uomini, donne, ragazzi, a volte la famiglia tutta intera, che si recavano a “spigolare”, a raccogliere quelle spighe per loro preziose.
Abbiamo già annotato che nel 1945 ci fu a San Benedetto un buon raccolto di grano, e per la stagione favorevole, e per la maggiore estensione di terreni coltivati a tale cereale.
Anche i lavori della trebbiatura si protraevano oltre il previsto.
Per le strade di San Benedetto era tutto un via vai di carri e carretti che trasportavano nelle case sacchi di grano ancora caldo di trebbiatura. E poi altri che lasciavano nelle strade odore di paglia appena imballata. Infine si vedevano i caratteristici carretti, adattati con lunghi bastoni e vecchi lenzuoli, che trasportavano la pula per i giacigli degli animali nelle stalle. Da questi ultimi carretti cadevano qua e là per le strade ciuffi di pula, che anche un leggero alito di vento disperdeva all’intorno fin dentro le case.
Nonostante questi disagi, luglio era pur sempre il mese della gioia.
Un brutto giorno, però…..
Era il 20  luglio 1945. Era una giornata particolarmente torrida, il solleone picchiava forte.
Nel pomeriggio mi trovavo nell’ufficio in Municipio ed ecco che vidi arrivare l’avvocato Nelio Cerasani. Oggetto del nostro incontro non poteva non essere la pratica per l’Autonomia Comunale.
Sapevamo che la pratica era ormai a Roma presso il Ministero dell’Interno, al Viminale, dove aveva sede anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’amico Nelio era venuto a trovarmi per concordare un altro eventuale viaggio a Roma. Si avvicinava il mese di agosto, il mese delle ferie e dei più o meno meritati riposi dalle fatiche di un anno.
Un nuovo colloquio con il Vice Presidente del Consiglio dei Ministri Manlio Brosio ci avrebbe certamente dato una certa tranquillità.
Dentro l’ufficio, con i soffitti a retina, faceva un caldo insopportabile, per cui pensammo di scendere giù al bar di Edina, dove ci saremmo seduti fuori all’ombra e avremmo continuato il nostro discorso, prendendoci un caffè insieme.
Mentre la signora Edina stava poggiando sul tavolinetto il vassoio con due tazzine di caffè, sentimmo un rumore a noi noto. Era la motocicletta dei nostri viaggi, guidata da Nando, fratello di Nelio.
Nelio intuì che poteva esserci qualche problema in famiglia e con due dita tra le labbra ecco uscire un forte fischio. Nando, pur con qualche problema all’udito, riconobbe quel fischio e si fermò. Il colloquio tra i due fratelli fu molto breve. La trebbiatrice della famiglia Cerasani era ferma nell’aia per un guasto alla caldaia. Bisognava riparare presto quel guasto per riprendere il lavoro. Il meccanico era a Pescina e bisognava andare a prelevarlo.
Nelio saltò sulla motocicletta: sarebbe andato lui stesso a Pescina. A me, che lo seguivo con lo sguardo da pochi metri, fece un cenno alzando ed abbassando la sua mano destra aperta: mi diceva di aspettarlo, per trovare una conclusione al nostro discorso appena cominciato.
L’attesa conclusione, però, non ci fu. Nella umana storia personale di Nelio Cerasani era rimasto solo un minuto di vita.
Il tempo per percorrere in motocicletta sì e no un chilometro di strada, quella strada da lui ben conosciuta, e andare a schiantarsi contro una biga trainata da un cavallo.
La tragica e immatura morte di Nelio Cerasani turbò la popolazione tutta di San Benedetto e in modo particolare gli amici del Comitato.
Il mio pensiero andava anche a quel migliaio di chilometri percorsi con la fatale motocicletta anche per strade dissestate, con alla guida sempre Nelio.
Nella mia qualifica di Ufficiale dello Stato Civile di San Benedetto mai avrei potuto immaginare di dover apporre la mia firma sull’attestato di morte di un caro e prezioso amico.
La vita, però, come suol dirsi, non si ferma, e non poteva fermarsi per noi del Comitato. Stavamo per raccogliere i frutti di tanti sacrifici.

 

CAPITOLO 30 : 7 SETTEMBRE 1945. UNA DATA DA NON DIMENTICARE

Per la nostra pratica, ormai al Ministero dell’Interno, a Roma si era lavorato anche nel mese di agosto, mese delle ferie.
Nei primi giorni di settembre, infatti, dalla Capitale ci venne una bella e tanto attesa notizia: per il 5 settembre 1945 nell’agenda dei lavori del Consiglio dei Ministri c’era anche la proposta del Ministro dell’Interno per San Benedetto Comune autonomo.
La febbre di un viaggio a Roma per quel giorno contagiò molti, ma con quale mezzo andare? Non c’erano molte scelte da fare.
Nel quartiere della Cittadella, dove abitavo, vedevo da alcuni giorni scorazzare per le strade un giovanotto ventisettenne, alla guida di uno strano mezzo di trasporto, una rumorosa motocicletta di bassa cilindrata che si trascinava dietro un rimorchietto di circa un metro quadrato. Il guidatore era Roberto Profeta, mio dirimpettaio di casa, mio amico dall’infanzia e compagno di giochi da ragazzi.
In mancanza di alternative, chiesi a Roberto di accompagnare a Roma, con quel suo mezzo, alcuni membri del Comitato. La richiesta nasceva più da un desiderio non represso che dalla convinzione di aver trovato un mezzo adatto al viaggio. Ero pronto ad ascoltare, in risposta, un secco no. Roberto, invece, convinto ed entusiasta, rispose di sì.
Fu così possibile organizzare quello che poi si rivelò il nostro ultimo “viaggio della speranza”.
Il 5 settembre 1945, di buon mattino, si partì per Roma. A bordo del rimorchietto cinque del Comitato (due accovacciati e tre in ginocchio): Caniglia Ferrante, Cerasani Vinicio, Gasbarri Fidio, Simboli Sebastiano e Tarquini Novemio. 
Un viaggio avventuroso, qua e là da brividi, ma in ogni caso indimenticabile.
Sui tornanti per Colli di Monte Bove si andava quasi a passo d’uomo. Superato il valico, solo strada in pianura e in discesa, ma con tante curve, fino a Roma.
Il nostro motociclista cominciava ad accusare stanchezza alle braccia. Sarebbe stato necessario fare una sosta. Roberto, invece, filava dritto: soffriva, ma taceva.
Poco prima di Arsoli, in una delle tante curve, il motociclista non riuscì a governare la guida e il nostro mezzo di trasporto, anziché seguire l’ansa della strada, andò dritto in una scarpata. Ci fu il ribaltamento del rimorchietto e ci ritrovammo tutti a terra. Per fortuna nessun danno serio alle persone, forse più serio quello ai vestiti.
Era scritto nella storia dei nostri viaggi che anche questo mezzo utilizzato per l’ultimo spostamento dovesse lasciarsi un ricordo non gradito.
Il luogo dell’incidente era a metà strada tra San Benedetto e Roma. Nessuno pensò che forse sarebbe stato meglio tornare indietro.
Non si poteva mancare al grande appuntamento.
Si riprese l’ancora lungo viaggio.
Eccoci finalmente a Roma.
Oggi, al viaggiatore che arriva nella Capitale, la Città Eterna offre, in tutte le strade, lo spettacolo di un fiume di automobili che si muovono tra due sponde di altre macchine ferme e parcheggiate alla meglio. Vien voglia di dire: ma la gente dov’è? Ben sapendo, però, che essa è nascosta dentro quell’ammasso di lamiere.
A noi, il 5 settembre 1945, Roma offrì lo spettacolo di un fiume di gente che affollava le strade ed entrava o usciva tranquilla da negozi e bar. Ad interrompere quel clima di serenità ogni tanto lo sferragliare di tram che annunciavano il loro passaggio con i rintocchi di caratteristiche campanelle. E proprio in mezzo a quel fiume di gente s’infilò il nostro mezzo di trasporto.
A richiamare l’attenzione di quelli che, distratti da altre faccende, non si accorgevano del nostro passaggio, ci pensava il tubo di scappamento della motocicletta con scoppi a ripetizione.
E qualcuno avrà pur detto: “Ma dove vanno quei matti?”
Noi (quei matti) andavamo al Vicinale, ad un appuntamento storico  per il nostro paese.
Davanti al palazzo del Ministero dell’Interno ci attendeva da alcune ore il sambenedettese Giulio Battaglia, che aveva aperto una sartoria a Roma. Il bravo Giulio aveva già prenotato un posto in garage per il nostro rimorchietto e camere d’albergo per la nostra notte romana.
Un’altra persona ci attendeva dentro il Vicinale. Era il Vice Presidente del Consiglio Manlio Brosio, il quale era sicuro che non saremmo mancati all’appuntamento.
Stava per iniziare la riunione del Consiglio dei Ministri.
L’onorevole Brosio ci fece accomodare in una sala non distante da quella dove stavano già entrando i Ministri.
E dentro quella sala sette sambenedettesi rimasero in attesa, finché l’onorevole Brosio non venne a comunicarci che il Consiglio dei Ministri aveva approvato la costituzione di un nuovo Comune italiano: quello di San Benedetto dei Marsi.
Il sogno, accarezzato dai Sambenedettesi da quaranta anni, era ormai realtà.
Difficile descrivere la nostra gioia. Dopo aver ringraziato e salutato il Vice Presidente Brosio, lasciammo il Viminale per continuare la nostra festa in una trattoria nei pressi di Piazza Vittorio.
Non fu necessario mettere insieme i nostri spiccioli, come era successo a L‘Aquila nel mese di gennaio 1945: sapevamo in anticipo delle spese da affrontare per la cena e per l’albergo.
A San Benedetto, dove la notizia dell’approvazione della costituzione del nuovo Comune era stata appresa per radio, la gioia si trasformò in un tripudio generale.
Per la nostra pratica, dopo la deliberazione del Consiglio dei Ministri, seguirono:
1) il Decreto Legislativo Luogotenenziale 7 settembre 1945 n°651;
2) la Registrazione alla Corte dei Conti del 23 ottobre 1946, registro n°6, foglio n°144;
3) la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia anno 86 n°123 del 25 ottobre 1945.
Il giorno seguente a questa data, venerdì 26 ottobre 1945, San Benedetto iniziava la sua attività di Comune Autonomo e anche una nuova storia, per chi avrà modo di leggerla, “testimonianza dei tempi, luce della verità, vita della memoria e maestra della vita”.
Ottenuta l’Autonomia, finirono i nostri viaggi, ebbe termine la nostra attività nel Comitato.
Automaticamente terminò anche la mia giovanile esperienza di amministratore nel Comune di Pescina, nel periodo forse più difficile della sua esistenza.
Da quel giorno non ero più un frazionista, ma ero stato promosso cittadino del nuovo Comune di San Benedetto dei Marsi.

POSTFAZIONE

 

Negli ultimi due secoli la Diocesi di Chieti-Vasto ha donato alla Diocesi dei Marsi tre Vescovi: Sario DURINI (1819-1823), Federico DE GIACOMO (1872-1884) e Pietro SANTORO (da settembre 2007).
Del Vescovo DE GIACOMO abbiamo già detto nei capitoli 14 e 15 di questo opuscolo. Si vuole ricordare ancora quello che il Vescovo DE GIACOMO dovette provare, durante la prima visita pastorale a S. Benedetto di fronte alla Cattedrale di Santa Sabina:
• stupore per la bellezza del prezioso portale;
• timore che la Chiesa, da anni chiusa al culto, dati i gravi danni alle strutture, potesse, senza immediati interventi, essere irrimediabilmente danneggiata;
• la speranza che fosse riaperta al culto quella che era stata, per undici secoli, la Cattedrale di una delle più antiche Diocesi d’Abruzzo e nella quale per quattro secoli avevano trovato riposo le spoglie del suo Vescovo S. Bernardo.
Di qui le insistenti richieste allo Stato di contributi per le riparazioni.
Riparata, la Cattedrale fu riaperta al culto e affidata alle cure della Confraternita di S. Vincenzo Ferreri.
Una trentina di anni dopo, però, il terremoto del 13 gennaio 1915, la distruzione.
Com’è possibile osservare dalla documentazione fotografica allegata, la furia distruttrice del sisma si fermò dopo aver lambito il portale, ma senza danneggiarlo.
Come tanti Sanbenedettesi, anche chi scrive si è più volte domandato perché non sia stata ricostruita sulle rovine della Cattedrale di Santa Sabina una chiesa con quel portale, osservando il quale per la prima volta, nel 1587, fra GERONIMO da Goriano esclamò: “Non ho mai visto una facciata di chiesa così bella”.
Quello che non è stato fatto da quasi un secolo è possibile farlo ora? Chi scrive pensa di sì, dopo che la Diocesi dei Marsi è stata affidata alle cure di un altro Vescovo Teatino.
Chi nel settembre 2007 poté assistere alla lunga e commovente cerimonia di insediamento del nuovo Pastore nella Cattedrale dei Marsi, ebbe modo di ascoltare dal vescovo Pietro SANTORO le parole di invito ai Marsicani ad essere, con lui e come lui “pescatori di stelle per sognare l’impossibile”.
Al Vescovo Santoro i Sanbenedettesi, pronipoti dei pescatori del Lago Fucino, ora possono dire: “Da quasi un secolo stiamo cercando di pescare una stella che ha nome Santa Sabina; e l’impossibile che sogniamo è quello di poter vedere, prima del centenario del terremoto, il ritorno di quel gioiello architettonico, ora solo monumento nazionale, facciata di un luogo di culto”.
Non si nascondono le difficoltà di ogni genere che si frappongono alla realizzazione del “sogno”. Non si tratta di realizzare un’opera faraonica; dietro quel portale sono disponibili solo un centinaio di metri quadrati, appena sufficienti per la costruzione di una cappella.
Il nostro sogno non finisce qui. Nell’interno della cappella vorremmo vedere tre piccoli altari: uno dedicato a Santa Sabina e gli altri due al nostro Papa S. BONIFACIO IV e a S. Berardo, il quale scrisse nel suo testamento di voler essere seppellito nella Cattedrale di Santa Sabina. Che vi torni almeno una sua reliquia!
Santa Sabina, San Bonifacio IV e San Berardo sono parte importante delle nostre radici, della nostra storia, che, come tutte le storie, non può e non deve essere mai dimenticata.
I Sanbenedettesi attendono che, con l’aiuto del Vescovo dei Marsi Pietro Santoro, teatino come il suo predecessore Vescovo Federico De Giacomo, “l’impossibile sogno” diventi realtà.
 

APPENDICE

DELIBERA N° 29: PARERE SULLA COSTITUZIONE IN COMUNE AUTONOMO DELLA FRAZIONE DI S. BENEDETTO DEI MARSI

L’anno millenovecentoquarantacinque il giorno ventidue del mese di maggio in Pescina, nella sede municipale.
Convocatasi la Giunta Comunale nei modi di legge, la medesima si è riunita nelle persone dei Sigg.:
1. Barbati G.Battista  Sindaco
2. Simboli Sebastiano            Componente
3. Marchione Mauro  Componente
con l’assistenza del Segretario Capo cav. Leone Nazzareno.

OMISSIS

A proseguimento

La Giunta

Vista la nota prefettizia n° 12978 Div. 2/1 del 18 corrente riguardante la erezione in Comune della frazione dei S. Benedetto dei Marsi;
Vista la domanda dei cittadini della predetta frazione tendente ad ottenere la costituzione in Comune autonomo della frazione stessa;
Considerato che detta domanda deve essere corredata del parere della Giunta Comunale;
Presa in esame la domanda stessa;
Vista che essa è stata sottoscritta da n° 822 cittadini;
Visto che il notaio Fenoaltea Francesco ha dichiarato autentiche dette firme ed ha certificato che esse appartengono a cittadini residenti nella frazione di S.Benedetto dei Marsi;
Visti i ruoli dei tributi locali applicati nella frazione S. Benedetto e riscuotibili durante l’anno 1945;
Considerato che quanto al numero dei firmatari, pur non essendo ancora compilate le liste elettorali maschili, per non avere ancora i Casellari Giudiziari restituiti gli estratti degli elenchi, i richiedenti costituiscono la maggioranza degli elettori della frazione;
Visto che la popolazione della frazione S. Benedetto dei Marsi, secondo l’ultimo censimento è costituito da 4080 abitanti;
Visto che l’abitato della ripetuta frazione dista da questo Comune Capoluogo cinque chilometri su strada provinciale e quattro chilometri su strada provinciale e un tratto di strada comunale;
Visti i bilanci di previsione per l’esercizio in corso e di quelli precedenti;
Visti i conti consuntivi dell’anno 1944 e retro;
Visti i registri degli inventari dei beni immobili e mobili sia pubblici che destinati ad uso pubblico o di natura patrimoniale;
Tenuti presenti i partitari dei crediti e dei debiti nonché gli impegni assunti dall’Amministrazione Comunale;
Tenuti presenti i dati amministrativi e contabili dell’esercizio in corso;
Visto che dai calcoli effettuati risulta che sia la frazione S. Benedetto che il Capoluogo con essa frazione Venere presentano i mezzi sufficienti per sostenere le spese comunali qualora si addivenisse alla separazione dei due Centri;
Che infatti la frazione S. Benedetto, se costituita in Comune autonomo, presenterebbe il seguente bilancio di previsione:

Parte prima – Entrata   Lire 948.602,97
Parte seconda – Uscita    Lire  948.602,97
Avanzo      ========

Che il Capoluogo, insieme con la frazione di Venere, costituirebbe il nuovo Comune con il seguente bilancio di previsione:

Parte prima – Entrata   Lire   1.443.453,38
Parte seconda – Uscita   Lire   1.443.453,38
Avanzo               =========

Chiarito che per tutti i servizi che potrebbero convenientemente funzionare non sia prevista alcuna gestione in Consorzio, ad eccezione del Servizio Veterinario;
Che pertanto qualora si costituisse in Consorzio qualche altro servizio, la situazione dei futuri enti ne resterebbe maggiormente avvantaggiata;
Considerato che ricorrono tutti gli estremi per potersi far luogo alla richiesta costituzione in Comune autonomo della frazione di S. Benedetto dei Marsi,

   UNANIME
- DELIBERA

Per le risultanze e i motivi di cui sopra, di esprimere siccome esprime, parere favorevole alla costituzione in Comune autonomo di S. Benedetto dei Marsi;

- RILEVA –

Che poiché il bilancio del Comune di Pescina è attualmente integrato dallo Stato, il pareggio dei bilanci di previsione dei futuri Comuni di Pescina e di S. Benedetto dei Marsi, vengano pareggiati medianti contributi statali.
Letto, confermato e sottoscritto

Il Segretario 
F.to Nazzareno Leone 

Il Sindaco

F.to G.Battista Barbati

I Membri 

F.to Mauro Marchione   
F.to Sebastiano Simboli

GAZZETTA UFFICIALE DEL 25 OTTOBRE 1945 CONTENENTE IL DECRETO DI COSTITUZIONE DEL NUOVO COMUNE DI SAN BENEDETTO DEI MARSI

***** BIBLIOGRAFIA *****

PARTE PRIMA:

Per le notizie riportate nella prima parte di questo lavoro ci si è serviti della documentazione esistente nell’Archivio Storico Diocesano presso la Curia Vescovile di Avezzano.

Sono stati consultati inoltre:
1) “I Vescovi dei Marsi  (1805 – 1990)”  a cura di Vincenzo Amendola
2) “Cartulario diocesano del terremoto del 13 gennaio 1915” a cura di Stefania Grimaldi


PARTE SECONDA:

Per gli anni 1907-1908:
1) Parere dell’avv. Giannetto Cavasola sulla domanda di Autonomia di San Benedetto
2) Atti del Consiglio Comunale di Pescina

Per gli anni 1914-1915:
1) Atti del Comitato per l’Autonomia di San Benedetto
2) “Pio Marcello Bagnoli vescovo dei Marsi” di mons. Giuseppe Di Iorio

Per gli anni Venti e Trenta:
1) “La Marsica, il Fucino, S. Benedetto dei Marsi” di Cesare Pietroiusti


Per gli anni 1944-1945:
1) Atti della Giunta Comunale di Pescina
2) Testimonianze – ricordi dell’Autore
 

DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA

FOTO 1 : IL 4 MAGGIO 1738 SAN BENEDETTO CONTAVA 142 ABITANTI: 74 UOMINI E 68 FEMMINE (Archivio Diocesano di Avezzano : busta 32, foglio 794, anno 1738).

FOTO 2 : LA CATTEDRALE DI SANTA SABINA PRIMA DEL TERREMOTO DEL 13 GENNAIO 1915

FOTO 3 : QUELLO CHE RIMANE DELLA CATTEDRALE DI SANTA SABINA DOPO IL TERREMOTO DEL 13 GENNAIO 1915

FOTO 4 : LO SPLENDORE DEL PORTALE DELLA CATTEDRALE DI SANTA SABINA RISPARMIATO DALLA FURIA DISTRUTTIVA DEL TERREMOTO

FOTO 5 : UNO DEI TANTI FREGI DEL PORTALE DELLA CATTEDRALE

FOTO 6 : UN ALTRO FREGIO DEL PORTALE

FOTO 7 : LA CHIESA-BARACCA DEL DOPO TERREMOTO

FOTO 8 : LA CHIESA-BARACCA E' TROPPO PICCOLA. SI CELEBRA ALL'APERTO

FOTO 9 : LA PROCESSIONE DI S. ANTONIO DEL 17 GENNAIO 1945

FOTO 10 : IL "MOLINO DI CIVITA", UN CARO MONUMENTO PER LA STORIA DI SAN BENEDETTO. OGGI E' UN CUMULO DI PIETRE.

FOTO 11 : IL "MOLINO DI CIVITA" NON MACINA PIU'. RACCOGLIE RIFIUTI DI OGNI GENERE.

FOTO 12 : SEBASTIANO SIMBOLI DURANTE IL SUO INTERVENTO PRESSO LA SALA CONSILIARE DEL MUNICIPIO DI SAN BENEDETTO DEI MARSI IN OCCASIONE DEL 60° ANNIVERSARIO DELLA COSTITUZIONE IN COMUNE AUTONOMO.