GABRIELE VALERIENSE, CRISTIANO DI ALLAH

La Cattedrale di Santa Sabina in una stampa del XVIII° secolo

 

 

Ad ELISA

sempre presente

per le persone

che l'hanno amata

PRESENTAZIONE

Se è vero che l’uomo è figlio del tempo, nell’alternarsi dei ritmi delle sue vicende terrene, è anche vero che, se vogliamo conoscere bene una persona del passato, dobbiamo guardarla nella storia del suo tempo.
Storia che, come ci ha insegnato Marco Tullio Cicerone, è sempre “Luce di Verità, Testimone del Tempo e Vita della Memoria”.
Un tempo splendido, un tempo meraviglioso, un tempo di giganti creatori, specialmente in Italia, dell’affascinante e insuperabile civiltà del Rinascimento è quello in cui è vissuto Gabriele di Valeria dei Marsi.
Ne abbiamo fatto brevi cenni per non allontanarci troppo dal tema propostoci. Come in quasi tutte le altre vicende della Storia, però, anche nel secolo d’oro di Gabriele, il Cinquecento, è possibile riscontrare aspetti e fatti negativi.
La dormiente “Notte” di Michelangelo li ha sintetizzati in queste due parole: “danno e vergogna”.
I danni sono quelli causati in territorio italiano dalla interminabile guerra tra Spagna e Francia; vergognoso è quanto sta accadendo nel Mare Mediterraneo centrale e occidentale e presso le coste europee. Si dà la caccia all’uomo, non escludendo neppure donne e bambini da vendere nel mercato degli schiavi.
Di questa vergogna sarà vittima anche Gabriele.
È uno scontro tra navi di Musulmani e navi di Cristiani che durerà tre secoli.
La Storia, è sempre Cicerone a dircelo, è anche “Maestra della Vita”, maestra severa, ma gli uomini, suoi scolari, sono sempre distratti e dimenticano presto quel poco che riescono ad apprendere.
La Storia, però, non si arrende e torna, con i suoi “corsi e ricorsi”, perché non si dimentichi mai che “l’oggi dipende dall’ieri” e il “futuro è frutto del passato”.
Quella di Gabriele Valeriense è una storia quasi dimenticata che ci accingiamo, per quanto possibile, a far rivivere.
                                                                                         S. S.
Avezzano, 14 settembre 2012

Capitolo 1

PARADISI TERRESTRI

Dio, per la dimora dell’uomo appena creato con la polvere del deserto, piantò in Eden un giardino con ogni sorta di alberi belli da guardare e buoni da mangiare.
C’erano anche due alberi particolari, in unico esemplare, che Adamo ed Eva, per ordine di Dio, potevano solo guardare e goderne della bellezza, ma non toccare o mangiarne. Erano l’albero della Conoscenza del Bene e del Male e l’albero della Vita immortale.
Ma dove era Eden?
Nella Bibbia – Genesi 2, 6 - 11 – è scritto che esso si trovava in Oriente e che dal giardino usciva un grosso corso d’acqua che dava origine a quattro fiumi: il Pishon, il Ghinon, il Tigri e l’Eufrate.
Quanto doveva essere bello quel luogo uscito dalle mani del Creatore!
Adamo ed Eva, però, rimasero poco tempo in quell’incantevole dimora.
Tentati dal serpente, ma spinti anche dalla loro curiosità, i nostri progenitori, disubbidendo all’ordine di Dio, mangiarono dall’albero della Conoscenza del Bene e del Male.
Per questa disubbidienza Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino di Eden e tornarono tra la polvere del deserto.
Il giardino di Eden è storicamente conosciuto con il nome di Paradiso Terrestre. La parola “Paradiso” è la traduzione in italiano del greco “Paradeisos”, a sua volta derivante dal persiano “Pairidaëza”, che significa appunto recinto, giardino di delizie.
Di Paradisi Terrestri, ma senza quei due alberi particolari, il Creatore ne aveva fatti sorgere tanti in vari luoghi del pianeta Terra, perché tutti potessero ammirarli e goderne della bellezza.
Un Paradiso Terrestre di rara bellezza era anche il luogo dove io sono nato.
Vi era un grandissimo lago, chiamato Fucino, le cui acque, come ha scritto più di 2000 anni fa il poeta latino Publio Virgilio Marone nell’Eneide, erano limpidissime e trasparenti come una lastra di vetro.
Un fiume, chiamato Pitornio, oggi fiume Giovenco, dividendosi in tre rami, portava le sue acque nel lago in tre punti diversi.
Le acque di quel fiume sono state rese famose da poeti e da scrittori dell’antichità greco-romana per una sua caratteristica non riscontrabile, per quanto se ne sappia, in altri luoghi della Terra.
Le acque del fiume Pitornio erano  così leggere che, entrando nel lago, non si mescolavano con le sue acque, ma filavano dritte verso la parte opposta. Qui, uscendo dal lago, sprofondavano tra dirupi del monte Salviano e, dopo un lungo percorso sotterraneo, andavano ad alimentare, presso Tivoli, l’acquedotto romano dell’Acqua Marcia.
L’Acqua Marcia, una bevanda così buona, che lo studioso latino Plinio il Vecchio ha lasciato scritto che essa era un “dono degli Dei alla città di Roma”.
Possiamo anche aggiungere che essa era un dono della terra dei Marsi ai cittadini romani.
Ma torniamo al lago, centro del Paradiso Terrestre marsicano.
Il Fucino, di forma quasi circolare ed esteso per Kmq dai 135 ai 170 era circondato da monti tra i più belli della catena degli Appennini, tutti di altezza superiore ai 2000 metri:
- a nord il monte Velino alto 2487 m;
- a nord est la catena del Sirente alta 2349 m;
- a ovest, nella catena dei Simbruini, il monte Cotento alto 2014 m;
- a sud est, nella catena dei monti Ernici, il Pizzo Dota alto 2037 m.  
Questi monti, tutti ricoperti di alberi e di erbe, formavano una verde cornice alle acque del lago.
Confesso che trovo difficoltà a descrivere la bellezza del Paradiso Terrestre della mia terra. Bisognerebbe averla osservata con i propri occhi. Neppure mio padre ha potuto vederla, perché nato durante l’ultima fase dell’opera di distruzione operata dall’uomo con il prosciugamento totale del lago.      
E ne avrà certamente goduto mio nonno Sebastiano, ma, essendo egli morto prematuramente, non ho avuto la fortuna di conoscerlo e sentirlo raccontarmi di quel lago.
Ma un testimone oculare, per fortuna, c’è: è il grande storico tedesco Ferdinando Gregorovius (1821-1891).
Circa 130 anni fa egli era in visita nella Marsica, quando le acque del lago Fucino stavano defluendo in un emissario appositamente costruito.
Ecco come lo storico tedesco espresse la sua meraviglia e la sua protesta: “Che specchio d’acqua meraviglioso deve essere stato il lago quando era ancora colmo! Anche ora nello splendore del sole al tramonto sembra tanto affascinante da dare l’illusione di vedere emigrare dai suoi flutti Ninfe e Galatee dentro le loro carrozze di conchiglie. Presto moriranno anche le Ninfe. Non posso conciliarmi con l’idea che debba sparire per sempre questo incantevole lago sulle cui onde azzurre si sono rispecchiati per dei millenni quei monti maestosi e quelle antichissime città.”
Specchio d’acqua meraviglioso, ancora tanto affascinante nello splendore del tramonto anche quando l’uomo lo stava distruggendo.
Mi piace immaginare le emozioni del pescatore, ancora sul lago in una notte stellata e di plenilunio.
Guardando in alto egli è affascinato da tutti quei punti luminosi della volta celeste, ed è ancora più affascinato quando, guardando in basso, vede la stessa immagine riflessa nelle limpide e trasparenti acque del lago.
Unendo le due visioni gli sembra di stare navigando nel firmamento infinito.
Il paese di Scurcola Marsicana non è ripuario del lago Fucino. Qui si svolse la battaglia tra Carlo d’Angiò e Corradino di Svevia (battaglia di Tagliacozzo, è scritto nei libri di Storia). Il vincitore Carlo d’Angiò fece costruire dal 1274 l’Abbazia di Santa Maria della Vittoria (purtroppo con le pietre dei monumenti di Alba Fucens) con annesso convento affidato a monaci cistercensi francesi.
Queste due opere furono distrutte da due violenti terremoti nel 1502 e nel 1506, ma furono subito ricostruite e affidate, in successione, a monaci cistercensi italiani, a frati francescani e infine a monaci benedettini.
Perché sto citando Scurcola, l’Abbazia di Santa Maria della Vittoria, i monaci?
Tra gli altri privilegi quei monaci potevano pescare nel lago Fucino con due barche, ma essi vi tenevano non solo le due barche da pesca: ognuna delle due, detta ‘barca caporale’, era seguita da altre sei barche più piccole, in tutto quattordici imbarcazioni, che spesso facevano il giro del lago.
Gli abitanti dei paesi ripuari accorrevano sulle rive per godere da vicino uno spettacolo così affascinante.
Dal 1877 il lago Fucino non c’è più, perché completamente prosciugato dall’uomo. Il clima cambiò, i monti persero parte del loro verde, molte piante, come l’olivo, non attecchirono più, i terreni fuori dell’alveo del lago diventarono più sterili.
Quanti degli abitanti della Marsica, me compreso, hanno sognato di poter vedere la bellezza di quel lago!
Per uno dei paradossi della Storia alle volte i sogni diventano realtà.
Nel mese di marzo 2011 nella Marsica è caduta quasi ininterrottamente una quantità eccezionale di pioggia e si è resa necessaria la riduzione dell’immissione delle acque nell’emissario, per evitare di accrescere la portata del fiume Liri (termine dell’emissario), le cui acque già tracimavano qua e là nella Valle Roveto.
Questi fatti hanno provocato l’allagamento di molte zone nell’alveo dell’ex-lago.  
Io ho avuto la fortuna non solo di vedere con i miei occhi la vasta zona allagata, ma anche di entrare, a bordo di un potente fuoristrada, tra le acque di strada 22.
È difficile esprimere l’emozione provata nello stare dove i miei antenati si recavano con una barca da pesca!
Una immagine di quell’allagamento è riportata in Appendice.
Ora torniamo indietro di alcuni secoli.
Il Paradiso Terrestre della mia terra era ancora nello splendore della sua bellezza, quando nel 1500, nella città di Valeria (oggi San Benedetto dei Marsi), la signora Gertrunda, in una modesta casa in riva al lago Fucino, in località oggi detta ‘della Madonnina’, regala a suo marito Matteo, falegname, il settimo figlio maschio, la cui storia tormentata e affascinante ci accingiamo a raccontare.

 

 

Capitolo 2

BELLO COME UN ANGELO

Accudire da sola i sette maschi della sua famiglia aveva stressato Gertrunda a tal punto che essa durante la settima gravidanza non aveva fatto altro che pregare Dio di mandarle questa volta una bambina, per la quale aveva già scelto il nome di Maria. Nacque, invece, un altro maschio.
Gertrunda l’accettò come un altro dono del Signore, ma non possiamo ignorare la sua grande delusione.
Matteo, per il sesso del nascituro, non aveva espresso preferenza. Da una parte desiderava vedere accontentata la moglie per il suo più che giusto desiderio, dall’altra, però, non gli sarebbe dispiaciuto avere un figlio maschio innamorato del lavoro paterno: costruire e riparare barche da pesca.
In questi lavori manuali Matteo era un maestro. Gli mancava l’erede a cui trasmettere tutti i segreti della sua arte.
Gli altri sei figli avevano altri interessi e nel laboratorio paterno neppure entravano.
L’ultimo nato non ha ancora il suo nome.
Un aiuto agli incerti genitori viene da Onoria, cugina di Matteo. Ed ecco come.
In quei tempi, ma anche in epoche non molto lontane da noi, alla donna che ha partorito parenti ed amici solevano portare doni, tra i quali non doveva mancare una gallina. Si credeva, infatti, che l’assunzione del brodo di gallina ogni giorno accelerasse l’arrivo di latte buono e abbondante nelle mammelle della neo-mamma.
Ed ecco, intanto, l’arrivo di Onoria con i suoi doni.
Porgendo la gallina a Matteo, ella dice: ”Caro cugino, questa è la gallina più vecchia del mio pollaio e tu ben sai che gallina vecchia fa buon brodo. Ricorda, però, che il brodo è tutto per Gertrunda; tu e i tuoi figli mangiate la carne e non sprecate nulla.”
Raccomandazione inutile, perché Matteo e i suoi figli di galline ne avrebbero mangiate anche due in un giorno.
Entrando in altra camera Onoria trova Gertrunda con in braccio il bambino. Avvicinatasi, quasi folgorata dalla bellezza di quel bambino, lo prende tra le sue braccia ed esclama: ”Gertrunda, questo tuo figlio è bello come un angelo!”
“Sì –risponde la neo-mamma- è bello come l’angelo più bello del Paradiso, come l’arcangelo Gabriele, l’angelo dell’annunciazione a Maria. Il nome del bambino sarà Gabriele.” 

 

 

Capitolo 3

GABRIELE E LE SPERANZE DEI GENITORI

Il nome Gabriele piacque anche a Matteo. D’altra parte, anche per gli altri sei figli Matteo e Gertrunda, d’amore e d’accordo, facevano le loro proposte, ma l’ultima parola, la scelta definitiva del nome era sempre della mamma.  Dell’infanzia di Gabriele non abbiamo notizie particolari; certamente quella di Gabriele fu un’infanzia felice tra l’amore dei genitori e la gioia dei fratelli piccoli e grandi.
Fattosi più grandicello, Gabriele veniva portato dal padre nel laboratorio. Il ragazzino voleva vedere e toccare tutto e in Matteo cresceva la speranza di aver trovato finalmente l’erede al quale trasmettere i segreti della sua arte e il suo laboratorio.
Le speranze di Gertrunda per l’avvenire di Gabriele erano ben diverse da quelle di Matteo!
Mai essa avrebbe voluto vedere suo figlio bello come un angelo nascosto tutti i giorni tra tavole da cui far nascere una barca da pesca. Donna molto devota, Gertrunda aveva insegnato al piccolo Gabriele molte preghiere che la sera recitavano insieme prima che il bambino si addormentasse. Lo portava con sé nella Cattedrale di Santa Sabina, specialmente quando a celebrare la Santa Messa era il Vescovo dei Marsi Giacomo Maccafani con i dieci canonici e vari sacerdoti.
E fu proprio lì, nell’interno della Cattedrale di Santa Sabina, che in Gertrunda nacque il desiderio di poter vedere un giorno Gabriele, giovane sacerdote, accanto al suo Vescovo. Gabriele era ancora troppo piccolo perché la mamma gli manifestasse questo suo desiderio.
Tra i preti, che Gertrunda era solita vedere durante le funzioni religiose nella Cattedrale di Santa Sabina, c’era anche don Emidio, suo lontano parente. Ella era a conoscenza delle difficoltà e dei sacrifici fatti dalla famiglia per quel figlio.
Di quali difficoltà, di quali sacrifici si trattava?
Per conoscerli e per capirli meglio un aiuto ci viene dalla documentazione esistente presso l’Archivio Storico Diocesano di Avezzano.
Premesso che tra gli eventi, tra i fatti della durata effettiva del tempo (passato, presente e futuro) c’è sempre una certa connessione, una certa interdipendenza e poiché, come recita un noto proverbio ”Il presente dipende dall’ieri”, noi cercheremo di conoscere, di capire meglio il passato in un confronto con il presente.
La Chiesa Cattolica, non solo oggi, ma da anni, fa presente di avere pochi sacerdoti a disposizione per l’espletamento di tutte le sue attività nel campo religioso e nel sociale.
Tutti possiamo constatare che ci sono parrocchie di quattro, cinquemila abitanti affidate ad un solo sacerdote, spesso anche anziano e di salute cagionevole. Molti sacerdoti restano in attività anche nell’età della pensione.
Ora vediamo come era la situazione, relativamente al numero dei sacerdoti, nei secoli scorsi. Sappiamo che nel passato, prima che nei Comuni fossero istituiti gli uffici dell’Anagrafe, le parrocchie erano la fonte quasi unica per le notizie relative allo stato della popolazione.
I parroci, alla fine dell’anno solare o all’inizio dell’anno pasquale, inviavano agli uffici della Curia Vescovile una relazione contenente il numero dei viventi e altre notizie, compresa quella del numero dei sacerdoti.
Qui veniva compilato un riepilogo generale di tutta la Diocesi da inviare all’Autorità civile.
Nell’Archivio Storico Diocesano di Avezzano è conservata sufficiente documentazione per farci conoscere le mappe sullo stato delle anime che i parroci riempivano ogni anno e le mappe della situazione generale di tutta la Diocesi. Vi è conservata anche una lettera-circolare spedita da Napoli (del cui Regno la Marsica faceva parte) in data 30 agosto 1797 della “Real Segreteria di Stato del Dispaccio Ecclesiastico” e diretta al Vescovo dei Marsi Giuseppe Bolognese.
Si raccomanda al Vescovo di intervenire presso tutti i parroci perché, nel compilare le mappe, “non si trascuri alcun individuo” e che “nella rubrica dei sacerdoti siano compresi anche i Parochi e gli Economi Curati …. i Canonici …. e l’istesso Vescovo”. Le mappe di tutte le parrocchie e quella generale della Diocesi devono essere rimesse a Napoli “nel venturo mese di ottobre, senza aspettare nuovo Real comando”.
Si tratta, come si vede, di un censimento della popolazione, come quello che è stato effettuato nella nostra Repubblica il 9 ottobre 2011, solo che il Re di Napoli voleva conoscere quanti erano i suoi sudditi ogni anno, mentre gli Italiani, o meglio i residenti in Italia, sono chiamati a compiere il loro dovere di “contarsi” ogni dieci anni.
Sembra, però, che quelle “raccomandazioni” fatte ai vescovi e quel “senza aspettare altro Real comando” somigliano un po’ alle sanzioni comminate, oggi, a quelli che non compilano o non riconsegnano il modulo, “la mappa” del censimento.
Esaminiamo ora il contenuto della mappa di una parrocchia e quella del riepilogo generale della Diocesi.
Abbiamo scelto la documentazione relativa all’anno 1796, anno “a metà strada” tra il tempo della storia di Gabriele e quello dei nostri giorni.

   1a Mappa dello stato delle anime, parrocchia Cattedrale della città di Pescina e sua villa (= frazione) di S. Benedetto Diocesi dei Marsi in provincia dell’Aquila per l’anno pasquale 1796 al 1797.

                                                        Viventi         Morti
Maschi                                               1402            39
Femine                                              1440            36
Nati                                                        55              8
Nate                                                       43            11
Sacerdoti                                                25             2
Diaconi e  suddiaconi                             02            00
Chierici                                                   03            00
Monaci e  frati sacerdoti                         04            00
Monaci e  frati laici                                  04            00
Monache ed educande                           26            01

Totale                                                  3004            97
                                           

Nello stesso anno vi sono nella Marsica altre tre cittadine con numero di abitanti superiore a duemila.
Vi citiamo il numero di abitanti, dei preti e dei monaci:

                 

                                 Abitanti       Preti   Monaci
      

Celano                      3215           31         36
      
Avezzano                  2540           31         16

Tagliacozzo               2257           21         14

  2a – Mappa generale per l’anno 1796 al 1797 (della Diocesi dei Marsi)

                                    Viventi             Morti
Maschi                         24150              531
Femine                        23797              649
Nati                                  776              160
Nate                                 783              169
Preti e Chierici                 472                17
Monaci e Frati                  149                  4
Monache ed Educande      84                  1
                 
Totale                           50211            1531

Come è possibile riscontrare dai dati trascritti, nei secoli passati di sacerdoti nella Chiesa Cattolica ce ne erano tanti, ma proprio tanti: uno per ogni 100 abitanti e, a volte, anche molto meno di 100.
La Chiesa dei Marsi aveva i suoi beni materiali, tra i quali mi piace ricordare l’antichissimo “Molino di Civita”, i cui ruderi è possibile oggi vedere in territorio di San Benedetto dei Marsi.
Questi beni, però, non erano sufficienti ad assicurare a tutti i sacerdoti una dignitosa esistenza dal punto di vista economico, se è vero che:
- Nel 1587 il frate francescano Fra Geronimo da Goriano fu mandato, dalla Curia di Pescina, a servire nella Cattedrale di Santa Sabina pr l’assistenza ai pochi abitanti rimasti nella semidistrutta città di Valeria. Compenso promesso: due ducati al mese. Passano i mesi e il frate non riceve alcun compenso: sarà così costretto a far ricorso alla Sede Apostolica di Roma.
- È l’anno 1873. Pietro Colantoni, canonico curato della Cattedrale di Santa Maria delle Grazie in Pescina, fa presente, con lettera alla Sacra Congregazione del Concilio in Roma, di non essere più in grado di versare parte (56 ducati) della sua prebenda al suo collaboratore economo-curato nella frazione di San Benedetto.
- Nel 1665 “il più antico Canonico della Cattedrale” Antonio Migliore scrive una lettera al vescovo Didago (Diego) Petra perché intervenga per far cessare alcuni “abusi” del clero e dare “li debiti rimedij”. Di quali abusi si tratta? Li elenca lo stesso Canonico Migliore:
• a Pescina, in occasione di un funerale si facevano suonare le campane di tutte le chiese, compreso il campanone della chiesa di San Berardo. Alla cerimonia funebre partecipavano molti sacerdoti non espressamente richiesti dalla famiglia del morto.
• come ancora oggi, il 2 di febbraio, nella festa della Candelora, venivano distribuite ai fedeli in chiesa le candele benedette. A Pescina le candele benedette venivano portate direttamente nelle case da alcuni ecclesiastici, che “ricevevano la debita mercede”, nelle feste di San Pietro Apostolo, di San Nicola e di San Leonardo. Risulta che il vescovo Petra prese dei provvedimenti contro tali “abusi”, certamente fatti per necessità economiche.  
Nonostante questi “abusi”, non è che cambiasse di molto la situazione economica di tanti sacerdoti.
Un certo miglioramento, invece, veniva dall’uso, dalla istituzione del cosiddetto “Patrimonium pro ….”, (“Patrimonio in favore di ….”), che consisteva in questo: all’aspirante sacerdote la famiglia doveva intestare, con regolare atto notarile, terreni, casolari o altri beni, le cui rendite gli consentissero tranquillità economica.
Una volta in possesso del patrimonio il Chierico rivolgeva istanza al Vescovo per poter proseguire gli studi e, a suo tempo, essere consacrato Sacerdote.
Ecco cosa scrive, in un Patrimonium datato 22-11-1741, al vescovo dei Marsi Domenico Brizi un giovane chierico, già in possesso dell’Ordine Sacro Minore degli Accoliti, detti anche Ceroferarij perché portavano i ceri durante la Messa:
    “Illustrissimo e reverendissimo Signore, l’Accolito Giovanni Nicola di questa città di Pescina umilissimo suddito di Vostra Signoria Illustrissima riverentemente Le rappresenta come desidera, a Dio piacendo, promoversi alli Ordini Sacri, à titolo di due benefici …. “ (segue una lunga e dettagliata descrizione dei benefici).
In altra pagina dello stesso Patrimonium si parla di  “una nota di beni (terreni) che si assegnano dal Magnifico Francesco Antonio al chierico Giovanni Nicola suo figlio in supplemento di patrimonio”. Evidentemente i due benefici di cui Giovanni Nicola era già in possesso non erano stati ritenuti sufficienti.
Ma non è così, perché ci sono documenti da cui risulta il contrario.
L’accolito Giovanni Nicola due anni dopo, nel 1743, era già don Nicola, cioè sacerdote.
Egli aveva un fratello più piccolo di nome Giovanni Antonio, che voleva seguirlo nella vita ecclesiastica. Ecco cosa è scritto in una lettera al vescovo dei Marsi Domenico Brizi del 7 aprile 1743: “Illustrissimo e Reverendissimo Signore, il novizio Giovanni Antonio della città di Pescina espone ad V.S. Ill.ma come sono anni quattro che ha vestito e portato l’abito clericale e servito in divinis nella chiesa Cattedrale ….. intende costituirsi il suo patrimonio sopra li beni donatigli da Francescantonio suo padre e da don Giovanni Nicola suo fratello …”.
Dunque Giovanni Nicola, ormai sacerdote, è in condizione di cedere una parte del suo patrimonio al fratello Giovanni Antonio
Acquisito il suo patrimonio il novizio Giovanni Antonio può rappresentare al suo vescovo con lettera del 6 maggio 1743 “il suo desiderio di arruolarsi alla milizia clericale per maggiormente servire Iddio”.
Torniamo ora indietro nel tempo, alla signora Gertrunda.
Erano forse di questo genere le difficoltà, i sacrifici affrontati dalla famiglia di don Emidio, sacrifici che la famiglia di Gabriele con nove persone da sfamare non avrebbe mai potuto permettersi.
Preoccupazioni inutili quelle di Gertrunda, perché nel libro di Chi governa la storia di tutti gli uomini c’era scritto ben altro per l’avvenire di Gabriele.
  
 

Capitolo 4

IL SECOLO DI GABRIELE

Si dice che l’uomo è figlio del tempo nell’alternarsi dei ritmi delle sue vicende terrene. Se vogliamo, perciò, conoscere bene Gabriele, dobbiamo guardarlo nella storia del suo tempo.
La vita di Gabriele è compresa nei primi otto decenni del XVI secolo.
Ma come era il secolo di Gabriele, il Cinquecento? Con una breve risposta all’interrogativo possiamo dire: il Cinquecento è stato un secolo di giganti, un tempo splendido, ma dalla vita tormentata, molto tormentata.
Anche i due secoli precedenti, il Trecento e il Quattrocento, sono stati tempi splendidi, di giganti. I tre secoli nell’insieme sono noti in Italia con il nome di Umanesimo e Rinascimento.
Fu l’artista e scrittore toscano Giorgio Vasari (1511-1574) nella sua opera “Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani” a dare il nome “Rinascenza” a quel periodo.
Che cosa era rinato secondo il Vasari?
Erano rinate le Lettere, le Scienze, le Arti, era rinata la civiltà dell’antichità greca e romana. Era rinata l’Atene di Pericle, non in Grecia, bensì in Italia.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e le invasioni barbariche, libri e documenti erano, soprattutto in Italia, solo nei conventi, nei monasteri, dove i pazienti monaci ne facevano copie a mano.
E vi rimasero nascosti quasi mille anni, in quel periodo della Storia noto con il nome di “Medioevo”, detto anche  “ I Secoli bui”, che poi bui non erano affatto.
Caratteristiche della civiltà medievale:
1) tendenza alla svalutazione dei beni materiali a favore dei beni spirituali dell’uomo;
2) contrasto, opposizione tra il potere spirituale rappresentato dal Papa e il potere politico rappresentato dall’Imperatore (del Sacro Romano Impero Germanico) con le inevitabili interferenze del primo nel campo del secondo (l’Imperatore è tale solo dopo la consacrazione e l’incoronazione del Papa) e del secondo nel campo del primo (l’Imperatore che impone il suo candidato alla suprema carica della Chiesa).
Sarà Dante Alighieri nel Trecento a tentare di eliminare il contrasto tra Papa e Imperatore, assegnando a ciascuno un compito ben distinto: quello spirituale al Papa, quello materiale all’Imperatore. (Non un Sole – il Papa – e una Luna – l’Imperatore -, ma due Soli).
E poi, per quel contrasto tra spirituale e materiale, è sempre Dante a farci capire, con la sua opera poetica, che la vita umana su questa terra non è che un pellegrinaggio, un veloce andare verso la vera Patria, nel Cielo.
A tirar fuori libri e documenti dal “buio” dei conventi e a portarli alla luce del sole furono molti ricercatori e studiosi, soprattutto italiani, detti Umanisti, e al periodo storico che va dagli ultimi decenni del secolo XIII alla fine del secolo XV, fu dato il nome di Umanesimo.
Umanesimo perché i rinati studi greci e latini  erano chiamati “Studia Humanitatis”, cioè studi che rendono “umani”, “civili”, quelli che si dedicano ad essi.
Nasce così, meglio dire ‘rinasce’ così, la civiltà umanistica con queste caratteristiche:
1) l’uomo è importante non solo perché pellegrino in cammino verso la Patria Celeste, ma anche perché essere che ‘vive’ sulla terra;
2) rivalutazione perciò dei beni terreni, senza però rinnegare i beni celesti. Rivalutazione dei beni terreni, sì, che, però, bisogna saper conquistare, perché, come troviamo scritto in un’opera attribuita allo scrittore latino Sallustio (86 a.C. – 35 a.C.), “faber est suae quisque fortunae”  (“ogni uomo è autore della propria fortuna”).
Gli Umanisti amano scrivere in Latino i libri delle loro ricerche e delle loro scoperte, ma presto nascerà la lingua italiana ad opera di tre giganti della nostra letteratura: Dante Alighieri (1265-1321), Francesco Petrarca (1304-1374) e Giovanni Boccaccio (1313-1375).
È il dialetto fiorentino che si afferma sopra la miriade degli altri dialetti italiani.
Altra importante caratteristica della civiltà umanistico- rinascimentale: essa è gloria tutta italiana, nasce in Italia e dall’Italia si diffonde in tutta l’Europa.
Il Trecento, il Quattrocento e il Cinquecento sono stati, in Italia, abbiamo già detto, tre splendidi secoli di giganti nel campo delle Lettere, delle Scienze e, soprattutto, delle Arti.
Il compito che ci siamo assunto in questo nostro lavoro è quello di raccontare, per quanto è possibile saperne, la vita affascinante e tormentata di Gabriele. Urge, pertanto tornare a lui, osservandolo nella storia del tempo in cui è vissuto: 1500 – 1580.
Sarebbe troppo lungo il solo dare i dati anagrafici di tutti i “giganti” dell’epoca umanistico-rinascimentale.
In Europa altri popoli (come quelli della Spagna e della Francia) erano impegnati alla costruzione e al rafforzamento di propri Stati Nazionali, mentre in Italia l’epoca dei Comuni si era trasformata in epoca delle Signorie, dando così origine a piccoli Stati, dominati da famiglie di Signori: i Visconti e poi gli Sforza a Milano, i Gonzaga a Mantova, i Medici a Firenze, gli Estensi a Ferrara, i Montefeltro a Urbino ed altri ancora.
Ci sono inoltre tre Stati più grandi per estensione territoriale: il Regno di Napoli, quasi sempre sotto la dominazione straniera, lo Stato della Chiesa, sotto l’autorità del Papa, e la Serenissima Repubblica di San Marco della Venezia dei Dogi, che per più di mille anni fu libera e indipendente.
Questa frantumazione territoriale in tanti piccoli Stati farà ritardare ancora di oltre tre secoli la nascita in Italia di uno Stato nazionale.
Questi Signori, però, hanno il grande merito di essere stati, tutti indistintamente, dei grandi mecenati, dei grandi protettori di poeti, di scrittori e di artisti, le cui opere di pittura, di scultura e di architettura hanno fatto dell’Italia il più grande museo del mondo.
Nell’accingerci a dare uno sguardo più approfondito al secolo di Gabriele, al Cinquecento, non possiamo non accennare a due avvenimenti della seconda metà del Quattrocento che aprirono nuovi capitoli nella storia del mondo:
1) la fine del millenario Impero Bizantino (ex-Impero Romano d’Oriente) il 29 maggio 1453 ad opera del Sultano dei Turchi Ottomani. Maometto II, detto il Conquistatore, avrebbe voluto conquistare all’Impero Musulmano anche l’Italia e iniziò assediando Otranto in provincia di Lecce. La cittadina pugliese resistette a lungo e, alla resa, la popolazione fu quasi tutta massacrata. Qualche mese dopo Maometto II morì: aveva 51 anni ed era l’anno 1481.
2) è l’anno 1492: scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo, genovese. Lo scrittore veneziano Malipiero Gerolamo così riferisce la notizia della scoperta dell’America: “L’Armada del re cattolico (spagnolo) ha trovà Paese nuovo …… fiumi ricchissimi, tal che ghe se pesca l’oro”.
Ma l’oro vero, più prezioso di quello dei fiumi americani, si produceva ancora in Italia nella prima metà del Cinquecento: mi riferisco alle immortali opere di Poeti, Scrittori, di Artisti.
Di questi giganti, in un elenco certamente incompleto, mi piace ricordare almeno i nomi. Per ognuno di essi valga il detto latino: “Tanto nomini nullum par elogium”, “per un nome così grande non ci sono parole per elogiarlo”.
Ed eccoli i nomi di questi giganti:
• il poeta Ludovico Ariosto (1474 – 1533);
• il filosofo ed ex-monaco domenicano, morto sul rogo,Bruno Giordano (1548 – 1600);  
• il pittore Sandro Botticelli (1445 – 1510),
• l’architetto e pittore Donato Bramante (1440 – 1514);
• lo scrittore e scultore Benvenuto Cellini (1525 – 1571);
• lo scrittore Baldassarre Castiglione (1478 – 1528);
• il letterato, storico e uomo politico Francesco Guicciardini (1425 – 1540):
• il pittore, scultore, architetto, ingegnere e grandissimo filosofo Leonardo da Vinci (1475 – 1564);
• lo scultore, pittore, architetto e poeta Michelangelo Buonarroti (1475 –1566);
• lo scrittore, uomo politico e storico Niccolò Machiavelli (1469 – 1527);
• l’architetto Andrea Palladio (1508 – 1580);
• il pittore Palma il Vecchio (pseudonimo di Jacopo Negretti) (1480 – 1528);
• il pittore Palma il Giovane, omonimo e pronipote di Palma il Vecchio (1546 – 1628);
• il pittore e incisore Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503 – 1540);
• il pittore Pietro Vannucci detto il Perugino (1450 – 1523);
• il pittore Raffaello Sanzio (1483 – 1520);
• il poeta Torquato Tasso (1543 – 1595);
• il pittore Jacopo Robusti detto il Tintoretto (1518 – 1594);
• il pittore Tiziano Vecellio (1478 – 1576);
• il pittore Paolo Caliari detto il Veronese (1528 – 1588);
• e chiudiamo il breve elenco con il nome del grande scienziato e scrittore Galileo Galilei (1564 – 1642) che visse quasi la metà della sua lunga vita nel Cinquecento.
Il Cinquecento, però, non è stato solo lo splendido secolo di giganti, ma anche, come si diceva all’inizio del capitolo, un secolo tormentato, molto tormentato, ricco di avvenimenti che hanno contribuito a cambiare il volto della storia del mondo.
Di alcuni di essi bisogna pur dare qualche notizia.
- Guerre tra Spagna e Francia.
Si combattono in quasi tutta la prima metà del Cinquecento.
Luogo del contendere: l’Italia.
Oggetto del contendere: la conquista o la supremazia in alcuni dei tanti Stati in cui, già sappiamo, era diviso  il territorio italiano.
Tra i principali contendenti il re di Francia Francesco I, che regnò dal 1515 al 1547.
Nella battaglia di Pavia del 1525 Francesco I è sconfitto e fatto prigioniero dagli Spagnoli.
Contrapposto a Francesco I, Carlo V padrone di mezza Europa con i possedimenti di Casa Asburgo d’Austria, Ungheria, Boemia, Impero Germanico; possedimenti di sua madre Giovanna la Pazza, erede del trono di Spagna; alla Spagna appartenevano pure le corone di Sardegna, Sicilia, Napoli, Belgio e Fiandre. Quando divennero spagnole anche le colonie americane ad opera dei conquistadores Pizarro e Cortèz giustamente Carlo V poté vantarsi dicendo che sul suo impero non  tramontava mai il sole.
La fine delle guerre franco-spagnole fu sancita nel 1559 con il trattato di Cateau-Cambrésis.  L’ultimo colpo all’esercito francese era stato dato nel 1557 da Emanuele Filiberto di Savoia nella battaglia di san Quintino.
In Italia rimasero i segni dei danni nei luoghi delle battaglie e dei passaggi degli eserciti dei due contendenti.
La seconda metà del Cinquecento segna il crepuscolo del Rinascimento. Era stata la prima metà del secolo il tempo in cui l’Italia senza Patria aveva dato all’Europa delle Patrie i frutti più maturi e più preziosi delle sue arti e della sua civiltà umanistico-rinascimentale.
Ora l’Italia continua la storia dei suoi “particulari” nella galassia dei suoi Stati e Staterelli, tutti sotto l’egemonia diretta o indiretta della Spagna. E per capire che quella della Spagna fosse una egemonia molto dura bastava ricordare quello che era capitato allo Stato Pontificio nel 1527.
Il re di Francia Francesco I aveva posto, come si usa dire, la sua candidatura alla carica di Imperatore del Sacro Romano Impero, carica che Carlo V già possedeva.
Pare che l’idea non dispiacesse al papa Clemente VII. Per la sicurezza del proprio Stato era meglio avere un vicino meno potente, come era appunto il re di Francia Francesco I e non un sovrano potentissimo come era allora Carlo V.
Lo Stato Pontificio pagò molto cara quella che era stata solo un’idea del Pontefice. Carlo V inviò a Roma un esercito di soldati mercenari tedeschi, i famosi e terribili lanzichenecchi.
Per le stragi, i massacri della popolazione, gli stupri, i furti, le distruzioni di opere d’arte e monumenti, mai Roma, nella sua lunga e ultra millenaria storia, aveva subito una simile umiliazione, a cui fu dato il nome di “sacco di Roma”.
- Lutero e la frattura religiosa del cristianesimo cattolico.
Tra i grandi avvenimenti nella storia del Cinquecento ci fu anche la Riforma protestante in campo religioso.
Fra i vari e numerosi riformisti accenneremo solo all’opera di Martin Lutero, un frate agostiniano tedesco. Alla sua opera di protesta e di riforma si assegna, per la Storia, come inizio, la data del 31 ottobre 1517, quando, nella chiesa del castello di Wittemberg, Lutero fece affiggere, perché tutti potessero prenderne conoscenza, le sue cosiddette “95 tesi o capitoli sulla questione delle indulgenze”.
In questo nostro lavoro non ci soffermiamo ad illustrare le questioni di carattere dogmatico e teologico che sono all’origine della Riforma luterana. Diciamo solo che la Riforma si diffuse rapidamente, anche fuori del territorio della Germania, perché fu accolta favorevolmente dai principi dei vari Stati tedeschi.
L’imperatore Carlo V avrebbe potuto richiamare al rispetto dell’ordine costituito quei principi, ma non poté farlo perché aveva bisogno del loro aiuto nelle guerre contro la Francia e per contenere l’invasione dei Musulmani, che, dopo la conquista dell’Impero Bizantino, avevano occupato molti territori europei.
Dopo il distacco da Roma Lutero ebbe una vita molto tormentata e probabilmente ebbe la sensazione di essersi spinto troppo avanti nella sua opera di distruzione del passato con le sue riforme, se è vero che, come trovo scritto nel libro “L’Italia della Controriforma” di Montanelli e Gervaso, e che riporto integralmente: “… Nel febbraio del ’46 la sua ulcera si aggravò improvvisamente. (Lutero) capì subito ch’era alla fine, e chiamò i suoi amici. Uno di loro gli chiese: “Reverendo padre, resti fedele a Cristo e alla dottrina che hai predicato in Suo nome?” Il morente rispose: “Sì” , e subito dopo si accasciò colpito da apoplessia.”
- La Controriforma cattolica. Il Concilio di Trento.
Il Cinquecento è detto anche il secolo della Controriforma.
La Riforma protestante portò, come era inevitabile, allo scisma dalla Chiesa di Roma, di cui si contestavano soprattutto l’autorità e l’infallibilità del Papa. A quest’ultima Lutero aveva opposto l’infallibilità della Bibbia, della quale fece una magnifica traduzione in lingua tedesca.
Ad eccezione che in Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia, la Riforma protestante dilagava in tutto il resto d’Europa.
Occorreva correre ai ripari, occorreva fronteggiarla.
Ma come? Con uno scontro frontale, con bolle di scomunica, mandando al rogo gli eretici, oppure riconoscendo ed accettando alcune verità dette da Lutero contro la mondanità della Chiesa cattolica?
La Riforma aveva provocato una frattura non solo in campo religioso, ma anche in quello politico, specialmente in Germania, dove alcuni Stati erano passati in massa al Protestantesimo.
Il fatto preoccupava molto l’imperatore Carlo V, il quale vedeva indebolirsi le forze nella interminabile guerra contro la Francia, ma anche svanire il suo sogno di dare all’Europa l’unità facendo rinascere l’Impero di Carlo Magno.
Di qui le sue sollecitazioni presso il papa Paolo III a indire un Concilio Ecumenico che ponesse fine allo scisma.
Il Concilio fu indetto a Trento nel 1545 e durò 18 anni, fino al 1563.
Il Concilio ebbe vita molto travagliata con le sue lunghe interruzioni, lo spostamento di sede a Bologna e ritorno a Trento, mancata partecipazione di questo o di quel gruppo di vescovi.
Comunque nel Concilio furono affrontati tutti i problemi dottrinali sollevati dalla Riforma e furono prese importanti decisioni per il rinnovamento della Chiesa.
- Anno 1571. Sconfitta navale turca a Lepanto.
Di questo importante evento storico avremo occasione di occuparci più avanti.

 

 

 

Capitolo 5

IL CINQUECENTO NELLA SERENISSIMA REPUBBLICA DI SAN MARCO.

A Venezia lo storico e scrittore Sanudo Marin il Giovane (1466-1536) alla fine del Quattrocento inizia a scrivere i suoi “Diari”, dove vengono narrati tutti i fatti che accadevano giornalmente a Venezia dal 1494 al 1533. Si tratta di una poderosa opera in 56 volumi.
Il Sanudo, orgogliosamente, inizia la sua opera con le parole: ”Questa città di Venesia, commun domicilio di tutti, terra libera né mai da niuno subiogata come le altre (città italiane), edificata …. non da pastori come Roma, ma da popoli potenti et ricchi, et quellhoro (= coloro) che da indi in qua sono stati obtacolo ai barbari …”
Quella libertà, quell’ostacolo ai barbari, durava da sei secoli e durerà fino al 1797.
Fino a quella data mai un esercito straniero era entrato nella piazza più bella del mondo: Piazza San Marco di Venezia.
Quando vi entrerà Napoleone Bonaparte sarà anche la fine della gloriosa Repubblica.
Di alcune delle imprese di Venezia in campo civile e in campo militare avremo occasione di parlare più avanti. Qui vogliamo dare uno sguardo alla Venezia città d’arte e di artisti nel Cinquecento.
Nell’ultimo decennio del Quattrocento Venezia era una città di pittori. Vi dominavano artisti della famiglia Bellini: Gentile (morto nel 1507), e Giovanni (morto nel 1516), figli del più grande Jacopo, morto da una ventina d’anni.
Vi operavano anche altri grandi maestri, ma a far scuola fu soprattutto Giovanni Bellini, nella cui “bottega” avevano perfezionato la loro arte pittorica i grandissimi Vettor Carpaccio (1466-1525) e il Giorgione (1477-1510).
A Venezia i pittori, gli architetti, gli artisti erano consociati in una “Fraglia” o Arte o Fratellanza (fraglia dal latino medievale fratalea, che significa appunto fratellanza).
La fraglia dei pittori era sorta a Venezia già prima del 1271.
Oggi i pittori vendono i loro quadri, spesso esposti in mostre, in modo diretto. I pittori del periodo umanistico-rinascimentale lavoravano su ordinazione di committenti.
A Venezia i committenti erano lo Stato, gli esponenti delle grandi famiglie, i ricchi cittadini privati.
Gli artisti ricevevano per i loro lavori lauti compensi e diventavano anch’essi molto ricchi.
Erano considerati “i quattro grandi pittori”, nella Venezia del Cinquecento, oltre al già citato Giorgione, anche il Tintoretto (1518-1594), il Veronese (1528-1588) e Tiziano (1478-1576).
Tra i grandi, però, se ne potrebbero aggiungere molti altri che hanno arricchito la città di San Marco con opere immortali.
Ma il Cinquecento a Venezia sarà chiamato “il secolo di Tiziano”. Non solo per la lunga vita quasi centenaria del pittore, ma per la sommità e il numero delle sue opere paragonabili solo a quelle di Michelangelo.
Negli ultimi anni del Quattrocento a Venezia chi transitava per il Canal Grande aveva modo di osservare un ragazzino fermo, solo, tutto intento a contemplare la bellezza dei palazzi delle due sponde del Canale. Altrettanto estasiato era possibile vederlo davanti a chiese e monumenti.
Quel ragazzino si chiamava Tiziano Vecellio. Era nato a Pieve di Cadore, ma il padre lo aveva portato già da piccolo a Venezia.
Nasce da qui il grande amore di Tiziano per Venezia, che diventa la sua città. Se ne allontanava malvolentieri, quando, per ragioni di lavoro, doveva assentarsene.
Ebbe subito fama di grande ritrattista ed era ricercato dai grandi personaggi del suo tempo. Vediamone qualcuno.
A Ferrara posano per un ritratto eseguito da Tiziano il duca d’Este Alfonso I, Ludovico Ariosto e la duchessa Lucrezia Borgia, una bellezza ormai sfiorita, ma alla quale il pennello del pittore ridona parte dell’antico splendore.
Nel 1513 a Venezia Tiziano ottiene la carica di ritrattista ufficiale dei Dogi e di pittore di Stato con il compenso di 300 corone annue.
Nel 1530 a Bologna esegue il primo ritratto dell’imperatore Carlo V.
Si dice che l’imperatore pagò un solo ducato per quel ritratto. Tiziano se ne adirò e la calma tornò dopo che il duca Gonzaga di Mantova consegnò a Tiziano altri 150 ducati.
Dopo questo non piacevole incontro, Carlo V e Tiziano divennero amici. L’imperatore lo nominò “Conte palatino”, “Cavaliere dello speron d’oro” e pittore di corte.
Non si contano i ritratti fatti da Tiziano a Catlo V, tutti pagati con ricchi compensi.
Anche il papa Paolo III volle farsi ritrarre da Tiziano: lo invitò a Roma, gli mise a disposizione uno dei palazzi apostolici e lo ricompensò lautamente.
Paolo III posò per mesi davanti a Tiziano: il ritratto del papa è un vero capolavoro.
Nell’anno 1552 Tiziano aveva 75 anni e si accasò definitivamente a Venezia.
Qui eseguì una lunga serie di autoritratti. Nell’ultimo si notano viso con rughe, occhi appannati dal tempo, folta barba rossa, naso imponente, in mano un pennello.
Tiziano fu un lavoratore instancabile fino all’ultimo giorno della sua vita.
Aveva già compiuto 98 anni quando gli fu commissionata una pala, “La deposizione”, dai monaci della chiesa dei Frari a Venezia. Compenso pattuito: una sua tomba all’interno della chiesa.
La peste gli impedì di eseguire l’opera.
Nel 1576 a Venezia infieriva la terribile peste: 50.000 morti tra i 150.000 abitanti.
Tiziano avrebbe potuto allontanarsi dalla laguna e tornare tra i monti del suo Cadore; egli non volle, però, abbandonare la “sua” Venezia e fu uno, certamente il più illustre, dei 50.000 morti.

 

 

Capitolo 6

IL CINQUECENTO E “LA NOTTE” DI MICHELANGELO

Dello splendido XVI secolo abbiamo dato, in chiusura del capitolo precedente, la brutta immagine della peste del 1576 a Venezia con i suoi 50.000 morti, tra cui il più grande maestro del colore di ogni tempo, Tiziano Vecellio.
Ora dobbiamo tornare indietro di alcuni decenni.
Siamo a Firenze nella chiesa di San Lorenzo.
Nella Sacrestia Vecchia, opera di Brunelleschi e Donatello, e nella sottostante cripta, da più di un secolo vengono seppelliti i membri della famiglia dei Medici, tra cui il grande Lorenzo il Magnifico e suo fratello Giuliano, ucciso nella Congiura dei Pazzi.
Durante il pontificato (1513 – 1521) di Leone X (Giovanni dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) muoiono nel 1516 il fratello del papa Giuliano duca di Nemours e nel 1519 suo nipote Lorenzo duca di Urbino.
Papa Leone, profondamente amareggiato, vuole per i due rampolli di casa Medici una sepoltura principesca. L’incarico è affidato a Michelangelo, che realizza, sempre nell’ambiente della basilica di San Lorenzo, capolavori come architetto e come scultore.
Nasce così la Sacrestia Nuova, all’interno della quale vengono poste le tombe del duca di Nemours e del duca di Urbino.
Le due tombe sono addossate alle pareti laterali, l’una di fronte all’altra. Sono sovrastate dai ritratti di Giuliano e di Lorenzo, vestiti entrambi come condottieri romani. Su ognuna delle due tombe sono poste due Allegorie del Tempo.
Si può dire che il tema dell’intera Cappella della Sacrestia Nuova è il Tempo che tutto consuma, il Tempo che fugge veloce nell’alternarsi dei ritmi di “Notte”, “Aurora”, “Giorno” e “Crepuscolo”.
È anche il Tempo della vita dell’uomo, che fugge ancora più veloce. “I miei giorni sono come ombra che declina” recita il versetto 12 del Salmo 102.
Tra il 1525 e il 1526 erano pressoché finite la “Notte” (per la tomba di Giuliano) e l’ “Aurora” (per la tomba di Lorenzo).
E quando per l’inaugurazione fu scoperta la statua della Notte, fu trovata scritta la famosa quartina:
“Dolce m’è il sonno e più l’esser di sasso
mentre che il danno e la vergogna dura.
Non veder, non sentir m’è gran ventura,
però non mi destar, deh parla basso!”

Sotto i colpi dello scalpello di Michelangelo anche le pietre parlano.
La “Notte” è una statua di marmo non distesa, ma accovacciata. La gamba sinistra è flessa e nell’incavo c’è una civetta, che è uno degli attributi della notte.
Il busto è quasi eretto; la testa, leggermente piegata in avanti, è sorretta dalla mano destra. Gli occhi sono socchiusi. Accanto, ma non a contatto con il corpo, un mascherone.
A ben guardarla la statua sembra più un essere pensante che un essere dormiente.
La “Notte” dorme e pensa e il suo pensiero è recepito dalla penna di Michelangelo, che era un grandissimo artista e anche un grande poeta.
Ma quale era il danno, quale era la vergogna, di cui era meglio non parlare?
Michelangelo non lo dice, perché vuole che lo scopriamo noi stessi.
Uomo dotato di una forte personalità e dal carattere molto difficile e aspro, egli era anche pieno di dubbi.
Spirito inquieto, era stato legato da sincera amicizia con Gerolamo Savonarola, anche quando Michelangelo viveva alla corte di Lorenzo il Magnifico e il frate agostiniano tuonava dal pulpito contro le malefatte della famiglia dei Medici.
Certamente Michelangelo pensava che se il suo amico fra Gerolamo fosse stato ascoltato invece di essere mandato a morire tra le fiamme di una catasta di legna in Piazza della Signoria a Firenze, forse poco dopo si sarebbe parlato molto meno di Lutero.
Le inquietudini di Michelangelo erano anche di altra natura. Egli, come Niccolò Machiavelli, come Francesco Guicciardini e pochi altri, era un grande italiano e non sapeva rassegnarsi al fatto di vedere le città italiane in balia di eserciti stranieri. E poi, l’Italia, frazionata in tanti piccoli Stati, spesso in lotta fra di loro, non era uno Stato nazionale come le prepotenti Spagna e Francia, i cui antichi popoli erano stati conquistati e resi civili da Roma.
Francesco Guicciardini lasciò scritto che, prima di morire, avrebbe voluto vedere tre cose:
-  “uno vivere bene di repubblica bene ordinata nella nostra città;
-  l’Italia liberata da tutti i barbari e
-  liberato il mondo dalla tirannide …” 
Di tiranni in Italia in quei tempi ce n’erano tanti.
Lo stesso pensavano anche Machiavelli e Michelangelo, ma tutti e tre sapevano che si trattava di una pia illusione.
Allora, giustamente, “…il non veder, il non sentir…” era di certo “una gran ventura”.
“Gran ventura” sarebbe stata, di certo, se Michelangelo avesse accettato nel 1506 l’invito del sultano ottomano Bayazid a recarsi a Costantinopoli.
Questo invito lo troviamo menzionato nell’opera dell’artista Ascanio Condivi, biografo e amico di Michelangelo, e anche nella già citata opera di Giorgio Vasari “Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scrittori italiani”.
Nel 1506 Michelangelo aveva 31 anni e la sua fama di grande architetto e scultore aveva varcato i confini dell’Italia.
Secondo il Condivi il sultano Bayazid avrebbe voluto affidare a Michelangelo la redazione di un progetto per la costruzione di un ponte che congiungesse, nel Corno d’Oro, la parte europea di Costantinopoli a quella asiatica.
Noi non sappiamo per quale motivo l’invito di Bayazid non fu accolto, forse perché Michelangelo aveva in Italia troppi impegni di lavoro, specialmente con il papa Giulio II, e forse anche per paura della vergognosa attività, che infuriava nel Mediterraneo, della guerra corsara e piratesca tra Musulmani e Cristiani, di cui ci occuperemo più avanti.
Quel ponte, se realizzato, sarebbe stata un’occasione d’incontro della civiltà del Rinascimento con il mondo arabo-musulmano: l’Oriente e l’Occidente ne sarebbero usciti culturalmente arricchiti.
Non è forse vero, ancora oggi, che le diversità sono una ricchezza?

 

 

 

Capitolo 7

LA LENTA MORTE DI VALERIA

Non so se tra le vergogne che “La Notte” di Michelangelo non avrebbe voluto mai più vedere o sentire parlarne ci fosse anche quella che potremmo chiamare “la più vergognosa delle vergogne”.
Penso di sì. E’ impossibile credere il contrario, perché essa dilagò, a partire dal Cinquecento e per tre secoli fino ai tempi di Napoleone Bonaparte, in tutto il Mediterraneo e investì tutti i Paesi rivieraschi del “Mare Nostro”.
Problema, quindi, non solo italiano e non solo europeo.
Ce ne occuperemo più avanti quando in essa sarà coinvolto, ma da vittima, il nostro Gabriele valeriense.
Abbiamo lasciato Gabriele quando era ancora un ragazzino e la madre Gertrunda lo portava ad assistere alle funzioni religiose nella Cattedrale di Santa Sabina con la speranza che in questo suo settimo figlio nascesse la vocazione, la disponibilità a farsi prete. Che gioia per la mamma se ciò fosse avvenuto!
Papà Matteo, dal canto suo, sembrava più contento, più soddisfatto di quel ragazzino che nel laboratorio paterno voleva vedere e toccare tutto.
“Finalmente – pensava Matteo – ho l’erede che cercavo.”
Lasciamo, per un po’ di tempo ancora, Matteo e Gertrunda con le loro speranze così diverse l’una dall’altra. Lasciamo crescere ancora un poco Gabriele.
Noi approfittiamo di questo intervallo di tempo per uno sguardo più approfondito alla città di Gabriele, alla bella Valeria, la capitale dei Marsi, la più grande città della Marsica, la più antica sede vescovile dell’Abruzzo, con il grande tesoro d’arte rappresentato dal portale della chiesa di Santa Sabina.
È  possibile ancora ammirare i resti di antichi e preziosi monumenti dell’antichità quando Valeria si chiamava Marruvio (con questo nome fino al 445 d.C.).
Torniamo per un momento al Cinquecento, perché esso è anche il secolo della “morte” della città di Valeria.
Storicamente quella morte viene considerata come avvenuta il 1° gennaio 1580, quando il papa Gregorio XIII autorizzò il vescovo dei Marsi Matteo Colli a trasferire, sebbene provvisoriamente, la sede vescovile dalla semidistrutta Valeria a Pescina.
E con il vescovo si trasferì anche quasi tutta la popolazione di Valeria.
Quella di Valeria fu, però, una morte lenta. Subì danni per i violenti terremoti del 1502 e del 1506.
Sappiamo che, in occasione di terremoti, subiscono danni maggiori i paesi e le località di pianura (come era la città di Valeria) rispetto a quelli posti in zone di collina e di montagna. Ne abbiamo un esempio anche con l’ ”erede” di Valeria (San Benedetto dei Marsi), quando nel terremoto del 13 gennaio 1915, perì il 65% della popolazione e furono distrutte quasi tutte le abitazioni.
La stessa cosa avveniva, nel tempo di cui stiamo trattando, in occasione delle frequenti guerre.
I paesi e le città di pianura non avevano nessuna possibilità di difesa al passaggio di eserciti mercenari nemici (e qualche volta anche amici). Quei soldati erano autorizzati a rapinare, a farsi il loro bottino.
Ne subì conseguenze disastrose anche la nostra città di Valeria.
Nello stesso arco di tempo non mancarono le periodiche escrescenze del lago Fucino con danni ai beni e alle case invasi dalle acque.
Ci furono anche lotte e incursioni di vicini potentati, specialmente dei padroni della contea di Celano, una cittadina posta in posizione ideale di difesa, che vedeva crescere i suoi abitanti e aspirava ad ereditare da Valeria la sede vescovile.
Tutti i fatti descritti, lentamente, ma inesorabilmente, provocano l’impoverimento di Valeria. La popolazione, che ha perso tutti i beni, lascia la propria casa semidistrutta (e che nessuno ricostruirà) e si rifugia in luoghi più sicuri con il difficile compito di trovare una nuova abitazione e un nuovo lavoro.
L’epilogo e la morte di Valeria il 1° gennaio 1580 sono ancora lontani.
Nel raccontare le vicende di Gabriele siamo arrivati intorno all’anno 1515.
Torneremo sulla fine di Valeria nell’ultimo capitolo della storia qui raccontata.

 

 

Capitolo 8

ADDIO ALLE SPERANZE DI GERTRUNDA E MATTEO

Gabriele è cresciuto. Ha 14 anni, ma, a ben guardarlo, gli si darebbe qualche anno in più. È, come si direbbe oggi, un bel ragazzo. Ciò, però, non basta in riferimento al figlio di Gertrunda, perché Gabriele è un ragazzo eccezionale non solo per la sua bellezza e per la sua prestanza fisica, ma anche per la sua vivace intelligenza, per l’amore allo studio, per l’attaccamento al lavoro e per il grande affetto verso i genitori e i fratelli.
Da anni mamma Gertrunda ha affidato Gabriele alle cure di don Emidio e il ragazzo ha imparato presto a leggere, a scrivere e a conoscere le prime nozioni della lingua latina, verso la quale si sentiva particolarmente portato.
Matteo ha superato i 50 anni. Per tutta la vita è stato un lavoratore instancabile, date anche le esigenze della sua numerosa famiglia.
Ora nel suo lavoro Matteo comincia ad accusare una certa stanchezza. Le tavole gli sembrano più pesanti e più difficili da sistemare.
Ed ecco il provvidenziale aiuto da Gabriele. Quando è libero dagli impegni per lo studio, Gabriele passa il suo tempo vicino al papà e lo aiuta riservando a sé i lavori più pesanti.
Matteo è orgoglioso di quel figlio che non ha bisogno di maestri nel suo fare ogni cosa.
Anche Gertrunda ha notato che le forze di Matteo non sono più quelle di una volta. Per questo motivo essa consente a Gabriele, che, come sappiamo, non avrebbe voluto vedere tra le tavole, di portare aiuto a Matteo nel suo pesante lavoro.
Finalmente, per la prima volta, Matteo e Gertrunda la pensano allo stesso modo circa la vita e l’avvenire di Gabriele.
I loro sogni, le loro speranze su quel figlio, che ancora qualche anno prima erano così diverse l’una dall’altra, ora sembrano coincidere e lo stesso Gabriele ne è contento.
Una situazione quasi idilliaca quella della famiglia di Gabriele, ma l’idillio, come vedremo, è destinato a durare poco.
Noi sappiamo che non sempre i sogni, i piani, le speranze dell’uomo coincidono con quanto scritto nel Libro di Chi governa la storia: un avvenimento imprevisto … e i piani dell’uomo vengono sconvolti.
A volte l’imprevisto avvenimento si presenta con prospettive allettanti e, dopo aver conquistato l’adesione dell’uomo, spesso si trasforma in un uragano che, come una specie di tsunami, tutto travolge e disperde.
È quello che sta per capitare alla famiglia di Gertrunda e Matteo. Per la vita di Gabriele si apre un nuovo capitolo. Una storia lunga, ma tutta da raccontare. 

 

 

 

Capitolo 9

GABRIELE DA VALERIA A LAVINIO

Il nuovo capitolo della vita di Gabriele si apre intorno al 1515.
Nello Stato della Chiesa, nel Lazio, in zona prospiciente il mar Tirreno, ad una ventina di chilometri da Roma, c’è l’antichissima città di Lavinio. Quel nome fu dato alla località dal troiano Enea quando, alcuni secoli prima della fondazione di Roma, vinse la guerra contro Turno, re dei Rutuli e poté sposare Lavinia, figlia del re Latino. Quel nome, quindi, fu dato per onorare la sposa Lavinia.
Perché anche lo sposo venisse ricordato dai posteri, la spiaggia di Lavinio ancora oggi porta il nome di “Lido di Enea”.
Accennando alla guerra tra Enea e Turno, mi piace ricordare che in quella occasione in aiuto di Turno venne dalla terra dei Marsi una schiera di soldati di Marruvio, per ordine del re Archippo e sotto il comando di Umbrone, non solo bravo guerriero, ma anche “sacerdote della stirpe marruvia” .
Sappiamo che il fortissimo Umbrone con il canto e con il gesto della mano faceva addormentare le vipere e con le erbe raccolte sui monti dei Marsi curava persino i morsi velenosi delle stesse.
Torniamo a Lavinio. Dalla più remota antichità la città di Lavinio era famosissima perché ritenuta la patria degli dei Penati protettori della famiglia e tutori della sacralità della vita dei membri della stessa.
La parola ‘Penati’ deriva dal latino ‘Penus’ che significa ‘provvista di cibi’ che si conservano in casa in apposito ripostiglio. Senza quelle vettovaglie sarebbe venuta meno la sopravvivenza della famiglia.
A Lavinio vi era inoltre il “Penum”, il santuario del tempio di Vesta, la dea del sacro focolare domestico.
È  bene ricordare come i sommi magistrati romani, prima di assumere e dopo aver deposto una carica, si recavano a Lavinio per compiere riti religiosi in onore degli dei Penati di Roma e della dea Vesta, rispettivamente come atto propiziatorio e come ringraziamento.
Torniamo ora ai tempi della storia di Gabriele.
A Lavinio vive da più di 40 anni Berardo. Egli era nato a Valeria dei Marsi e il suo nome ci fa ricordare che nella Cattedrale di Santa Sabina era sepolto San Berardo, vescovo dei Marsi in Valeria dal 1113 al 1130.
Suo padre Leonardo si era trasferito con la famiglia a Lavinio per ragioni di lavoro quando Berardo aveva sei-sette anni.
A Berardo piaceva ricordare il suo paese natio e il periodo della sua spensierata fanciullezza. Ricordava soprattutto una bella e riccioluta bambina di nome Gertrunda, sua cugina.
Di cugini Gertrunda ne aveva quattro, tutti maschi, che facevano a gara per poter giocare con lei. Sembrava che Gertrunda avesse una certa preferenza per Berardo. Qualche volta partecipava ai giochi anche una coetanea di Gertrunda, che aveva un nome un po’ strano, Ununtinia, ma che da tutti era conosciuta come Ntinia.
Dopo una decina di anni dal suo trasferimento a Lavinio, Leonardo deve tornare a Valeria per dirimere alcune questioni familiari. Porta con sé anche Berardo, ormai un giovane diciottenne.
Berardo è contento di accompagnare il padre, non solo per la gioia di ritornare in quel Paradiso Terrestre che era il suo paese natio, ma anche per rivedere la bambina bella e riccioluta della sua infanzia, la cugina Gertrunda, ormai anch’essa diciottenne.
Berardo non l’aveva mai dimenticata e con la sua fantasia la vedeva crescere sempre più bella.
Possiamo dire che Berardo si era ormai innamorato di quella cugina, e che forse anche lei provava gli stessi sentimenti?
Era questo il suo sogno, era questa la sua speranza. Invece….
In una riunione di famiglia è presente anche Gertrunda. Berardo la riconosce subito e la trova anche più bella di quanto la immaginasse.
Indescrivibile dire la gioia provata da Berardo.
Cresce la sua speranza che Gertrunda sarà la donna della sua vita.
Gioia e speranza, però, destinate a durare poco e a trasformarsi in tristezza e dolore.
Gertrunda è accompagnata da un uomo, Matteo, da poco tempo suo marito.
La tristezza e il dolore accompagneranno Berardo nel periodo della sua permanenza a Valeria, ma prima di ripartire per Lavinio Berardo incontra Ntinia, che in bellezza non aveva nulla da invidiare a Gertrunda.
Nel salutarla Berardo le dice: “Ntinia, ti piacerebbe vivere a Lavinio?”
Forse questa domanda nasceva dal desiderio di Berardo di portare a Lavinio un pezzo – e che pezzo! -  del suo amato paese natio.
Ntinia capisce che c’è qualcosa di più in quella domanda e promette di pensarci. Ma non avrà dovuto pensarci tanto, se è vero che poco tempo dopo ella si trasferirà a Lavinio, moglie di Berardo.
Matteo e Gertrunda, Berardo e Ntinia: due famiglie meravigliose, legate non solo da rapporti di parentela, ma anche da reciproco rispetto e da affettuosa amicizia.
Passano gli anni e molto velocemente. Berardo e Ntinia non hanno figli ma sono molto ricchi: una ricchezza, la loro, derivante in parte dai beni ereditati dai genitori e in parte dal duro lavoro dei coniugi.
Forse non era mancato anche un pizzico di fortuna.
Anche Matteo e Gertrunda erano ricchi: non di beni materiali, ma di figli.
I figli non sono forse una ricchezza?
Nella Bibbia leggiamo nel Salmo 126 vv. 3-5:
“Ecco, dono del Signore sono i figli,
  è Sua grazia il frutto del grembo,  
  come frecce in mano a un eroe
  sono i figli della giovinezza.
  Beato l’uomo
  che piena ne ha la faretra.”

E Gertrunda nella faretra di Matteo ne aveva messe sette di frecce.
Una faretra ben piena: sette figli maschi!
Siamo nel 1515. Nei capitoli settimo e ottavo abbiamo accennato alla situazione di Valeria, con il suo iniziale ma inarrestabile declino e, in particolare, a quella della vita della famiglia di Matteo e Gertrunda con le sue inevitabili difficoltà economiche e con lo stato di salute non troppo buono del capofamiglia.
Lavinio nello Stato della Chiesa era una città più tranquilla rispetto a Valeria nel Regno di Napoli.
Berardo e Ntinia, anch’essi ultracinquantenni e, come detto, senza figli, avevano a disposizione tanti beni in case, terreni, pascoli, greggi. 
Berardo, anch’egli con qualche problema di salute, non riusciva più a controllare lo stato della sua ricchezza.
Occorreva un aiuto. Ma quale e come?
Berardo e Ntinia ne parlavano spesso tra di loro. Ntinia guardava più lontano. “Come controllare la nostra ricchezza quando saremo più avanti negli anni e con una salute non più buona? Che fine faranno dopo la nostra morte i frutti del lavoro nostro e dei nostri genitori?”
E qui si sentiva più forte il dolore per la mancanza di figli. Di questo non amavano parlare. Quella mancanza era dovuta a Ntinia o a Berardo? Non si sapeva, perciò era meglio non parlarne.
Erano anche questi i sentimenti di Berardo, che si adoperava molto alla ricerca di una soluzione.
Un bel giorno gli sembrò di averla trovata e così ne parlò a Ntinia: “Noi siamo molto ricchi e la nostra ricchezza si accresce di anno in anno. In Valeria la mia cugina e tua vecchia amica Gertrunda forse non riesce a tener dietro alle esigenze della sua numerosa famiglia. Perché non darle un aiuto?
Il numero degli abitanti di Valeria comincia ad assottigliarsi e, di conseguenza, anche il lavoro per Matteo va diminuendo.
Ma perché io vada di persona nel lontano nostro paese natio c’è anche un altro motivo: lo conoscerai al mio ritorno.”
Una domenica, di buon mattino, è fermo davanti l’abitazione di Berardo un grosso carretto pieno di ogni ben di Dio: al tiro due cavalli guidati da un giovane stalliere.
Berardo sale sul carretto e parte alla volta di Valeria. Il viaggio dura tre giorni. Si viaggia solo quando c’è luce diurna. Di notte c’è pericolo di incontri indesiderati e poi bisogna far riposare i cavalli.
Finalmente l’arrivo a Valeria. Calorosa l’accoglienza da parte di Matteo e Gertrunda.
E poi tutti quei beni nel carretto, una vera manna dal Cielo!
Berardo ama intensamente il suo paese natio e vi si tratterrebbe volentieri molto tempo, ma deve tornare subito a casa, perché, a Lavinio, Ntinia è sola.
“Cara Gertrunda, caro Matteo, io Berardo sono venuto a Valeria anche per risolvere con il vostro aiuto un grosso e difficile problema.
Come ben sapete, a Lavinio, io e Ntinia abbiamo tanti beni che, data la nostra età, non riusciamo più a controllare e a stare insieme a quelli che lavorano con noi.
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti.
Questo qualcuno potrebbe essere uno dei vostri figli. Venendo con me a Lavinio, vi assicuro che il suo non sarà un lavoro pesante, ma soltanto di controllo.
La sua ricompensa sarà grande e, se non gli dispiacerà di rimanere a Lavinio, io e Ntinia lo nomineremo erede unico di tutti i nostri beni.
Sta a voi decidere se tutto ciò è possibile. Se mi consentite di esprimere un mio desiderio, vorrei che venisse con me a Lavinio Gabriele.
So che questo vostro figlio sta anche studiando. Vi assicuro che lo farà anche a Lavinio.
Non datemi subito una risposta. Pensateci bene. Parlatene tra di voi e con il mio futuro aiutante.
La risposta me la darete domani, perché ho fretta di tornare da Ntinia.”
Questa la proposta di Berardo.
Noi non conosciamo le considerazioni fatte dai genitori, prima tra di loro e poi con i figli.
Si valutarono di certo i pro e i contro. La loro fu sicuramente una decisione sofferta.
Le mamme non vorrebbero mai che i figli si allontanino dalla casa dove sono nati.
Forse furono veramente versate tante lacrime.
Una cosa certa fu, però, che Gabriele dopo tre giorni era a Lavinio, circondato dalle affettuose cure di Berardo e, specialmente, di Ntinia.

 

 

Capitolo 10

GABRIELE VITTIMA DELLA PIÙ VERGOGNOSA DELLE VERGOGNE

Gabriele, a Lavinio, pur con il pensiero a Valeria, dove ha lasciato i suoi affetti più cari, vive una vita tranquilla, operosa e dedita allo studio.
Lo zio Berardo gli ha messo a disposizione una biga e un cavallo per le visite alle sue proprietà.
A Gabriele piaceva molto soffermarsi a parlare con i pastori che sorvegliavano le pecore al pascolo. A volte le pecore partorivano mentre erano al pascolo e gli agnellini, non ancora in grado di reggesi in piedi, venivano presi tra le braccia dei pastori. Anche Gabriele prendeva in braccio e accarezzava quei neonati, la cui triste sorte era di diventare, a breve, gli “abbacchi” della cucina romana.
Quanta tenerezza negli sguardi tra gli occhi di Gabriele e quelli degli agnellini! Eppure gli occhi di quei piccoli animali tra qualche mese guarderanno, forse con la stessa intensità e senza lamenti, chi sta togliendo loro la vita.
Anche nella vita degli uomini possono esserci vicende tristi.
Si può dire che Gabriele a Lavinio stia trascorrendo una vita idilliaca, ma anche quell’idillio è destinato a durare poco, perché fra meno di un anno, nell’ottobre 1516, egli sarà vittima di quello che nel capitolo settimo abbiamo chiamato la più vergognosa delle vergogne del XVI secolo.
Si tratta del fenomeno della schiavitù e del mercato degli schiavi nei Paesi del Mediterraneo centrale e occidentale, ad opera di corsari e pirati musulmani e cristiani.
E tutto questo per più di tre secoli, fino al 1830, quando l’Algeria, la più importante base di corsari e pirati, fu conquistata dai Francesi.
Per capire bene quanto sta per accadere a Gabriele, è necessario conoscere anche tutti gli aspetti di quel triste e vergognoso fenomeno che fu la guerra corsara.
La guerra corsara è stata una grande realtà storica, ma i libri di Storia o la ignorano o ne fanno solo brevi e fugaci cenni.
Perché questo silenzio? Anche di questo i libri di Storia non parlano, ma qualche motivo deve pur esserci. Di certo si prova vergogna a parlare della propria vergogna.
Nel Mediterraneo, il “mare nostro” dei Romani, il “mare di mezzo” dei Musulmani, erano nate le civiltà: quella degli Egizi, quella dei Fenici, quella degli Ebrei, quella dei Greci, quella dei Romani e, infine, quella dell’Islam.
Da pochi anni Cristoforo Colombo aveva scoperto un Nuovo Mondo. Si andava in Asia, fino in Oriente, con le navi circumnavigando l’estremo sud dell’Africa.
Il Cinquecento, come abbiamo avuto modo di scrivere nei capitoli precedenti, è stato il secolo d’oro della civiltà umanistico-rinascimentale, che dall’Italia si era diffusa in tutta l’Europa. Era stato riscoperto l’ “uomo artefice della propria fortuna”. Che dire poi dei “giganti” nel campo delle Lettere, delle Scienze e delle Arti vissuti in quel secolo?
Da 1500 anni il Cristianesimo aveva abolito la schiavitù.
Il secondo comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” (che Gesù dice essere simile al primo, cioè a quello che recita “Ama Dio sopra ogni cosa”) significa anche che l’uomo non può rendere schiava la persona che deve amare come se stesso.
Nel Corano almeno una decina di Sure (=capitoli) si occupano del problema degli schiavi.
Nella Sura IV versetto 36 si raccomanda: “Siate buoni ….. con gli schiavi in vostro possesso.”
Nella Sura XXIV vv. 33-38 si dice che se gli schiavi chiedono l’affrancatura contrattuale, bisogna concederla e se la richiesta è fatta da gente buona si deve dare ad essa anche una parte dei propri beni.
“Le elemosine sono per i poveri, per i bisognosi …. e per il riscatto degli schiavi” (Sura IX v. 60).
“Chi ripudia la propria moglie e poi la riprende, deve, come punizione, liberare uno schiavo (Sura XVIII vv. 33-38).
“Chi libera uno schiavo, il giorno del Giudizio Universale sarà compagno di quelli della destra” (Sura XC vv. 13 e 18).
“La liberazione degli schiavi è sempre opera buona e meritoria per l’Islam” (Sura V v. 89).
Una tradizione canonica ci fa sapere che il profeta Maometto sul letto di morte non faceva altro che raccomandare ai credenti due cose: la preghiera e il trattare bene gli schiavi.
Un’altra tradizione, anch’essa canonica, ci fa conoscere questa importante raccomandazione di Maometto ai suoi seguaci: “Quando uno schiavo prega, è tuo fratello.” E i fratelli non possono essere fatti schiavi.
Questo, in breve, quanto prescrivono le due religioni monoteiste sul problema della schiavitù.
Ora vediamo che cosa sta succedendo, dall’inizio del 1500, nel Mediterraneo occidentale e centrale.
Si sta svolgendo la guerra corsara e della pirateria, i cui principali attori sono:
- dalla parte islamica i cosiddetti Stati Barbareschi della costa africana: Algeria, Tunisia e Tripolitania. Questi Stati hanno la protezione e l’aiuto del grande Impero Ottomano, che da pochi decenni occupa tutti i territori dell’ex-Impero Romano d’Oriente;
- dalla parte cristiana ci sono le navi dei Cavalieri di Malta e dei Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano del Granducato di Toscana.
Cerchiamo di conoscere meglio i personaggi di cui dobbiamo occuparci.
Chi sono veramente i corsari e i pirati?
Un aiuto ci viene dall’etimologia delle parole.
- La parola “corsaro” deriva certamente da “corsa”, traduzione in italiano della parola latina “cursus”, che, tra i tanti significati, ha anche quello di scorrazzamento, di navigazione (“tenere cursum” = controllare la navigazione) e, quindi, per estensione, di scontro, di azioni belliche con le navi.
- La parola “pirata” è quasi la trascrizione del vocabolo greco “peiratés” (= pirata), del sostantivo “peirateion”  (= tentativo) e del verbo “peiràn” (= assalire).
Corsari e pirati svolgono la stessa attività: assalire navi, impossessarsi delle merci, catturare gli uomini a bordo da vendere nel mercato degli schiavi.
E, cosa più vergognosa, venivano effettuati sbarchi a terra e incursioni sulle coste  per catturare non solo uomini, ma anche donne e bambini, sempre da destinare al mercato degli schiavi (e l’Italia, data l’estensione delle sue coste, ne ha pagato il prezzo più alto).
Corsari e pirati, dunque, svolgono la stessa attività. Perché quei due nomi diversi?
C’è un motivo e lo spieghiamo con l’esempio di due automobilisti di oggi. Si tratta di due bravi e abili guidatori, con perfetta conoscenza meccanica dell’auto. Il primo ha la patente, cioè l’autorizzazione dello Stato a poter guidare automobili con obblighi ben precisi: pagare il bollo annuale, assicurare il veicolo, rispettare tutte le norme del Codice della strada. Il secondo non ha la patente, fa tutto a suo rischio e pericolo, spesso non paga bollo e assicurazione. Si comporta in modo illegale.
Il corsaro ha la “patente”: si chiama proprio così l’autorizzazione a fare la “corsa”. Egli ha obblighi ben precisi: non arrecare danni alle navi dei paesi amici, dare una parte del bottino allo Stato concessionario della patente.
Allo Stato spettano anche (cosa veramente scandalosa) una parte, un certo numero degli schiavi catturati.
Il pirata non ha la patente. Fa tutto per proprio conto, non rispetta le navi dei paesi amici: è un illegale, un fuorilegge.
Pirati e corsari si può dire che siano antichi quanto l’uomo. Noi, però, nel raccontare la loro storia, dobbiamo limitarci al secolo di Gabriele, al Cinquecento, e solo perché Gabriele vi è coinvolto.
Quale era la sorte degli uomini, delle donne e dei bambini fatti schiavi dai Musulmani, chiamati, dal tempo delle Crociate, Saraceni?
Anzitutto essi venivano portati in Africa, a Tripoli, a Tunisi e, soprattutto, ad Algeri.
Gli uomini più robusti venivano usati ai remi delle navi corsare, spesso con catene ai piedi.
Gli altri lavoravano nei campi, presso laboratori artigianali o presso famiglie islamiche.
Tutti, però, erano oggetto di compravendita nei mercati degli schiavi come se fossero sacchi di granaglie.
Quante erano per gli schiavi cristiani le possibilità di uscire da quella umiliante situazione e di tornare liberi?
Nessuna da impossibile fuga.
Qualche rara occasione nello scontro navale tra Cristiani e Musulmani.
Esisteva lo scambio dei prigionieri.
Si tenevano mercati degli schiavi anche in alcune città italiane, tra cui Venezia, ma solo per lo scambio degli schiavi con regole ben precise.
Si avevano maggiori possibilità di tornare liberi mediante:
- il riscatto o
- la conversione all’Islam.
Erano sorti in Europa due ordini religiosi proprio per dedicarsi al riscatto degli schiavi cristiani:
- dal 1198 l’Ordine della Santissima Trinità, da cui il nome di Trinitari ai religiosi, i quali facevano anche un quarto voto: quello di prendere il posto dello schiavo cristiano che non aveva i mezzi per essere riscattato;
- dal 1235 l’Ordine di Nostra Signora della Mercede, da cui il nome di Mercedari ai religiosi.
Trinitari e Mercedari si recavano in Africa con i soldi delle famiglie degli schiavi e di offerenti volontari.
Per il riscatto occorrevano molti soldi. Il prezzo fissato dai “venditori”, e non riducibile, variava per ogni tipo di persona da riscattare. Capiremo meglio con qualche esempio.
- Nel giugno 1561 il corsaro musulmano Dragut catturò e portò schiavo a Tripoli il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo. Per il riscatto, dopo un anno di trattative, furono versati 3000 scudi (somma enorme per quei tempi), con l’impegno per il vescovo di versarne altri 3000 qualora fosse diventato papa.
-  Lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, autore del famoso libro “Don Chisciotte”, fu catturato dal corsaro musulmano Arnaut Mami e portato ad Algeri, dove c’erano altri 20.000 schiavi cristiani. Nel 1571 Cervantes aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, fu ferito due volte e perse l’uso della mano sinistra. La madre dello scrittore consegnò, per il riscatto, 280 scudi a due Trinitari. Il “padrone” ne voleva 500 e non ci fu niente da fare. Il Cervantes per cinque anni dovette servire come schiavo tre crudeli padroni: un rinnegato greco, un rinnegato veneziano e il Bey di Algeri. Solo nel 1580 due frati trinitari riuscirono a pagare il riscatto per 186 schiavi cristiani, tra cui Cervantes.
Tra i grandi personaggi musulmani catturati e fatti schiavi da corsari cristiani mi piace ricordare Hasan Ibn Muhamad Al-Wazzàn. Portato a Roma, fu “donato” al papa Leone X Medici, che lo fece battezzare e gli cambiò il nome in Giovanni Leone dei Medici.
Hasan imparò presto l’italiano e in italiano scrisse la sua opera più importante: “Descrizione dell’Africa”, di grande valore documentario ancora oggi.
Morto il papa Leone X, Hasan tornò in Africa, ridivenne musulmano e riprese il suo nome, anche se nelle enciclopedie di tutto il mondo ancora oggi  è noto come Leone Africano.
Un certo numero di schiavi cristiani tornarono liberi mediante la conversione alla religione islamica. Nel periodo di cui stiamo trattando si parla di 300000 cristiani convertiti all’Islam, detti “rinnegati” dagli altri cristiani.
Furono conversioni per motivi religiosi o per uscire dalla triste condizione di schiavi e tornare liberi? Di certo ci furono gli uni e gli altri motivi, ma nessuno può darcene il numero distinto.
Per convertirsi all’Islam la procedura era molto semplice e breve: bastavano alcune frequenze nella moschea e dichiarare davanti a testimoni di credere nell’esistenza di un Dio unico e che Maometto era il suo profeta.
Il convertito all’Islam che chiedeva di ridiventare cristiano doveva sottoporsi alle lunghe procedure del Tribunale dell’Inquisizione.
Perché nel Cinquecento tanti schiavi cristiani e musulmani?
Perché tante conversioni all’Islam?
Nel Mediterraneo operavano le navi di due grandi imperi:
- in Oriente quello Ottomano. I Musulmani, recuperati tutti i loro territori già conquistati dai Crociati, erano impegnati nella conquista di territori della cristianità europea.
- in Occidente il grande Impero Absburgico-Spagnolo di Carlo V, impegnato a contrastare, non sempre con successo, corsari e pirati musulmani. Sono musulmani i grandi personaggi della guerra corsara, come Kadir al Din, detto Barbarossa, Dragut e Uluj Alì, detto Ucciali.
Per quanto riguarda il grande numero dei convertiti, bisogna aggiungere a quanto già detto che lo schiavo cristiano che “si era fatto turco”, come allora si diceva, che cioè si era convertito all’Islam, non solo tornava pienamente libero, ma aveva anche la possibilità di fare carriera. E ce ne furono tanti che la carriera la fecero veramente.
Presso i Musulmani non c’erano privilegi di nazionalità: l’unico privilegio era quello di appartenenza alla “Umma”, la famiglia dei Musulmani.
Diamo qualche notizia di due grandi capi corsari musulmani.
- Dragut. Corsaro turco, era il terrore degli abitanti delle coste spagnole e della Sicilia. Nel 1560, fatto prigioniero da Giannettino Doria, per anni fu messo ai remi di navi spagnole. Riscattato dal Barbarossa e tornato libero, riprese a saccheggiare le coste spagnole e italiane. Tra le sue vittime abbiamo già annotato il vescovo di Catania. Ottenuto il governo di Tripoli, nel 1565, mentre partecipava all’assedio di Malta, una cannonata gli portò via la testa.
- Uluj Alì detto Ucciali. Figlio di un povero pescatore calabrese, era ancora un ragazzino quando fu catturato dai Turchi. Convertitosi all’Islam, fu alla scuola del corsaro Dragut e divenne il più temuto corsaro del suo tempo. Ebbe vari incarichi di governo a Tripoli e ad Algeri. Era presente all’assedio di Malta del 1565. Nel 1571 era uno dei tre ammiragli della flotta ottomana nella battaglia di Lepanto. Parleremo di lui, ancora, più avanti.
Torniamo ora alla brutta vicenda di cui fu vittima Gabriele.
Il corsaro musulmano Kurdogli aveva un piano per catturare e fare schiavo il papa e cercava l’occasione per passare all’azione.
Egli era a conoscenza che il papa Leone X Medici era solito andare a caccia e a pesca nella zona di Lavinio e lo era anche in quel giorno dell’ottobre 1516 quando Kurdogli e i suoi uomini sbarcano a Lavinio. Un piano studiato a perfezione.
Il fatto è così raccontato  dal frate  domenicano Guglielmotti, storico della marina pontificia:
”Qualcuno a gran ventura n’ebbe sentore e tutta la brigata (pontificia) volse le briglie a tempo, galoppando di gran fretta verso Roma, dove entrarono a salvamento.”
Il papa si salva.
Kurdogli, non abituato a smacchi così clamorosi, s’imbestialìsce più di quanto si è già bestiali quando si compiono azioni criminali.
Tornando indietro porta scompiglio dovunque passa e fa catturare dai suoi gli uomini validi per i remi.
Sfortuna volle che Kurdogli e i suoi uomini passassero anche dove Gabriele si era recato per la quotidiana visita ai pastori di Berardo. Egli ha in braccio e accarezza un agnellino, nato da poche ore.
Due corsari si avvicinano a Gabriele, gli strappano dalle braccia l’agnellino e lo spingono verso il gruppo degli altri uomini catturati.
La stessa sorte tocca ai due pastori di Berardo.
Tutti in gran fretta verso la marina, dove sono in attesa due navi corsare.
Imbarcati Gabriele e i suoi compagni di sventura, le navi salpano alla volta di Algeri.
Il cavallo di Gabriele, dopo ore di inutile attesa, torna indietro e si ferma con la biga davanti alla casa di Berardo, il quale, non vedendo Gabriele, immagina che qualche cosa di grave sia successo, sale sulla biga e di corsa verso il recinto del pascolo delle pecore.
Qui non ci sono né Gabriele né i pastori. Le pecore non pascolano, ma, impaurite, stanno insieme in un angolo del recinto.
Nell’entrata del pascolo c’è una sola pecora, che con la lingua e i movimenti della testa sta accarezzando l’agnellino strappato dalle braccia di Gabriele e buttato a terra.
Quanta tenerezza materna e, forse, quanta sofferenza nei gesti di quella pecora per il suo agnellino morente!
Berardo intuisce quello che era successo e corre verso la marina.
Qui non c’è nessuno: si vedono solo le due navi corsare allontanatesi già di qualche miglio.
Dentro una di quelle due navi per Gabriele si sta per aprire un’altra pagina, una triste pagina della sua vita: la schiavitù.    


 

Capitolo 11

GABRIELE SCHIAVO DI CORSARI MUSULMANI

Gertrunda e Matteo, Berardo e Ntinia sono personaggi destinati a scomparire in questo punto dal nostro racconto. Non abbiamo trovato altri punti di riferimento certi. Possiamo, però, immaginare di loro qualche cosa che sia veramente accaduta.
La scomparsa di un figlio provoca in una mamma e in un papà il dolore più grande che si possa immaginare. Molto spesso è difficile che un genitore possa sopravvivere a tale tragedia.
Per Gertrunda e Matteo si deve aggiungere il senso di colpa (che li tormenterà per il resto della vita) per aver aderito alla straziante richiesta di Berardo, permettendo che quel figlio bello come un angelo, Gabriele, si trasferisse da Valeria a Lavinio.
Anche a Berardo e a Ntinia la cattura di Gabriele arrecò un grande dolore.
A parte lo scompiglio provocato dai corsari nei suoi beni materiali, anche Berardo sentirà un senso di colpa per aver portato a Lavinio il figlio prediletto di sua cugina Gertrunda.
È  da presumere che Berardo abbia dato incarico ai frati Trinitari  e Mercedari di pagare qualunque somma per il riscatto di Gabriele e dei due pastori.
Forse ci sarà stato esito positivo per i due pastori, ma non per Gabriele. Come vedremo in seguito Gabriele non sarà mai messo in vendita nei mercati degli schiavi.
È  possibile immaginare ancora che Matteo e Gertrunda non siano vissuti molto a lungo dopo la tragedia e che Berardo e Ntinia abbiano adottato gli altri sei fratelli di Gabriele, nominandoli eredi di tutti i loro beni.
Dopo giorni di lenta navigazione, le due navi corsare di Kurdogli con il grande carico di uomini affamati, disidratati, stanchi e stressati, arrivano in Africa.
Non sappiamo dove sia stato effettuato lo sbarco e quali siano state le prime avventure di Gabriele schiavo dei Musulmani.
Dovranno passare una quindicina di anni prima di riavere precise notizie su di lui.
Immaginiamo che Gabriele abbia cambiato più volte padrone prima di essere preso come schiavo da Youssuf, il quale era sì un padrone, ma che conosceva molto bene il Corano e le raccomandazioni del Profeta:
- pregate e trattate bene gli schiavi in vostro possesso;
- lo schiavo che prega è tuo fratello.
E Gabriele era uno schiavo che pregava, e pregava molto.
Ci saranno, però, altri due motivi perché Gabriele venisse trattato bene da Youssuf. Li conosceremo più avanti.
Noi approfittiamo di questo buco nero della vita di Gabriele per dare qualche breve notizia della città di Algeri dove egli vivrà una quarantina di anni.
La città di Algeri fu costruita intorno all’anno Mille dalle popolazioni berbere, da più di tre secoli già convertite all’Islam.
Algeri divenne un Principato Berbero autonomo dal Sultanato Fatimita che aveva la sua capitale in Egitto, Il Cairo.
Con la liberazione nel 1492 dell’ultimo baluardo islamico nella penisola iberica, cioè Granada, la Spagna impose ad Algeri il pagamento di un tributo  (1510-1530).
Già nel secondo decennio del 1500 era stato istituito ad Algeri un Pascialato ottomano, cioè un’autorità, il Pascià, che godeva della protezione degli Ottomani.
Nel 1530 Algeri fu occupata dal corsaro Kadir Al Din, detto il Barbarossa, e vi fu instaurata l’autorità del Sultano di Costantinopoli.
La città divenne, in verità, un covo di corsari, di pirati, di rinnegati, di giannizzeri turchi e di avventurieri di ogni specie.
Non fu più pagato il tributo alla Spagna e furono ripresi gli sbarchi dei corsari sulle coste spagnole.
Già nel 1530 i Turchi cominciarono a costruire nella parte alta di Algeri la Casbah, una cittadella-fortilizio che ancora oggi, a distanza di quasi cinque secoli, conserva la sua antica fisionomia.
Non molto lontano dalla Casbah da qualche anno viveva Youssuf, di professione falegname, con la moglie Fatema, la figlia A’Isha e lo schiavo Gabriele.
Torniamo per un momento ai rapporti tra Algeri e la Spagna.
Il rifiuto di continuare a pagare il tributo alla Spagna e l’intensificazione degli sbarchi  corsari sulle coste spagnole rappresentavano di certo un’offesa al capo del più grande impero del mondo, cioè all’imperatore absburgico-spagnolo Carlo V.
Era inevitabile che Carlo V pensasse alla vendetta, alla distruzione delle navi corsare, all’occupazione di Algeri.
Dopo una decina di anni era già pronta per l’azione una grande armata navale spagnola, sotto il comando del genovese Andrea Doria.
Gli Algerini, che conoscevano le intenzioni di Carlo V, si prepararono allo scontro con gli Spagnoli rafforzando la difesa della città e costruendo altre navi.
Lo scontro avvenne nel 1541 e per gli Spagnoli fu un disastro. Lo stesso imperatore Carlo V, che partecipava all’azione, rischiò di essere preso prigioniero dai corsari. Fu salvato, però, da Andrea Doria che lo accolse nella sua nave.
Per la storia annotiamo che Algeri perse la sua libertà solo nel 1830. quando fu occupata dai Francesi. Riacquistò la sua libertà nel 1962, dopo sette anni di guerra e un milione di morti.
Come era la vita dello schiavo Gabriele in casa del padrone Youssuf?
A Youssuf la sua religione islamica imponeva, come abbiamo già annotato, di trattare bene gli schiavi ed egli era profondamente religioso.
Da questo punto di vista Gabriele era relativamente tranquillo. Chi vive da schiavo non può essere mai completamente tranquillo. L’amore di una mamma e di un papà è unico.
L’affetto di Youssuf e Fatema gli ricordano piuttosto quello degli zii Berardo e Ntinia.
Youssuf era di professione falegname e nella città di Algeri aveva la fama di essere un maestro insuperabile nell’arte dei lavori in legno.
Nell’arco di tempo in cui l’imperatore Carlo V e i corsari di Algeri si stavano preparando allo scontro del 1541, Youssuf era molto indaffarato per la costruzione di galere e galeoni per la flotta corsara.
Nel laboratorio di Youssuf è costretto a lavorare anche lo schiavo Gabriele, il quale riesce a dimostrare che in certe faccende di lavoro del legno ne sa più del suo maestro-padrone.
Una vittoria per ricordare papà Matteo, costruttore di barche da pesca nel lago Fucino e suo primo e vero maestro.
È anche questa abilità di Gabriele nell’arte del legno a far sì che Youssuf lo tratti bene e mai avrebbe accordato il riscatto, seppure dietro una grossa somma di denaro.
Questo è uno dei motivi per cui i coniugi Youssuf e Fatema si erano così affezionati a Gabriele.
C’è, però, anche un secondo motivo più serio, più importante di quanto si possa immaginare.
Sarà l’argomento del prossimo capitolo.    

 


 

Capitolo 12

GABRIELE, UNO SCHIAVO INNAMORATO

Quando Gabriele aveva visto per la prima volta la casa di Youssuf, nel suo harem domestico vivevano solo due donne: la signora Fatema e una bambina di sette-otto anni di nome A’Isha, rispettivamente moglie e unica figlia del suo padrone.
La conoscenza delle due donne da parte di Gabriele non fu istantanea, ma alquanto prolungata nel tempo.
Perché tutto questo? Un motivo c’è e, per capirlo, bisogna conoscere bene il significato della parola harem.
Nella storia del mondo musulmano era possibile distinguere due tipi di harem.:
- gli harem dei Sultani, dei ricchi sceicchi, formati da splendidi palazzi pieni di affascinanti donne servite da schiavi ed eunuchi. Nell’harem del Califfo di Bagdad, Harun al- Rashid (che si vantava di avere buoni rapporti con l’Imperatore Carlo Magno), di donne ce n’erano mille. Gli harem dei sultani durarono fino al 1909, quando l’ultimo sultano ottomano ‘Abdel-Hamid venne deposto e le donne del suo harem, smantellato, riacquistarono la libertà.
- gli harem domestici. L’harem domestico è la parte della casa riservata alle donne appartenenti: - o a una famiglia monogamica; - o a una famiglia poligamica; - o a famiglie allargate, vincolate da stretti rapporti di parentela, ma tutte monogamiche. Non è prevista la presenza di schiavi o eunuchi.
Quale è il vero significato della parola harem?
Etimologicamente harem è una variante della parola araba haràm, che significa “ciò che è proibito”, “ciò che è vietato”.
L’harem domestico è prima di tutto uno spazio, un luogo dove un uomo dà un rifugio sicuro alla sua famiglia. Ma esso è anche haràm, un luogo dove chi vi abita o vi entra è obbligato a tenere un certo comportamento, a rispettare i “sacri confini”, detti hudud.
Un sacro confine, un hudud, per un uomo nell’interno dell’harem domestico è quello di non varcare la porta che dà accesso alla parte della casa riservata alle donne.
Un sacro confine per la donna dell’harem domestico è la porta d’ingresso della casa: per uscire fuori non può varcarla da sola e senza altre precauzioni. Sono poche le occasioni in cui la donna dell’harem domestico può varcare quel sacro confine.
Dicono i fautori dell’harem: “ Quando si ha una bella e comoda casa, cibo abbondante, gioielli, bei vestiti ed altro , che cosa può mancare alle donne per essere felici?”
Qualcosa di certo manca. Ce lo dirà qualcuno più avanti.
Anche la moschea è haràm, ma haràm per eccellenza è, però, la Mecca, la città santa dell’Islam e madre delle città.
La Mecca appartiene ad Allah e chi vi entra deve conoscere e rispettare la Shari’ah, la legge santa.
Le due donne dell’harem di Youssuf  indossano il velo, sebbene non troppo volentieri da parte di A’Isha.
Il velo è un sacro confine, un hudud, importantissimo per la donna che vuole sentirsi sicura e protetta; uscire di casa senza velo significa esporre le proprie parti belle anche ai malintenzionati.
Si ricorda che l’adulterio per la legge islamica è un peccato punibile anche con la pena di morte.
Fatema e A’Isha indossano il nikab, un velo integrale nero che lascia scoperti solo gli occhi. Il viso è coperto da una stoffa rettangolare di cotone fitto e pesante, che spesso impedisce anche di respirare.
Per evitare tale inconveniente si poteva sostituire la tela di cotone rettangolare con un velo più piccolo triangolare di seta.
Non tutti gli uomini, però, permettevano alle loro donne questo cambiamento, perché il velo di seta faceva intravedere la sagoma del viso.
Noi non sappiamo quando e dove Gabriele abbia incontrato per la prima volta A’Isha. Di lei sapeva solo tutto quello che gli diceva Youssuf.
A’Isha cresceva non solo fisicamente, ma anche in bellezza. È pur vero che per un genitore i propri figli sono i più belli del mondo, anche quando troppo belli non lo sono affatto.
Le parole di Youssuf, però, erano piuttosto insufficienti per poter descrivere quel capolavoro di bellezza magrebina che lui stesso e mamma Fatema avevano messo al mondo.
Gabriele sognava di poter finalmente incontrare A’Isha e lei era almeno curiosa di poter osservare con i propri occhi quel giovane italiano, del quale mamma e papà parlavano molto bene.
A’Isha era incerta se dire: “Maledetti corsari”, che avevano strappato Gabriele dalla propria famiglia,  o se dire: “Benedetti corsari”, che quel ragazzo così bello glielo avevano portato in casa sua.
Quel giorno tanto atteso finalmente arriva.
Fatema sente il bisogno di andare a parlare con Youssuf che sta lavorando con Gabriele nella falegnameria non molto lontano da casa.
Essa si fa accompagnare dalla figlia e un motivo c’è. A’Isha lo intuisce subito, così la sua primitiva curiosità si trasforma in piacevole attesa.
Le due donne indossano il nikab, il velo che, come abbiamo già annotato, lascia scoperti solo gli occhi.
Il viso di Fatema è nascosto da una stoffa nera rettangolare di lino pesante; il volto di A’Isha non si può dire che sia nascosto, ma solo coperto da un velo a forma triangolare, e a trama larga, di seta.
Se la zia di Gabriele, Onoria, avesse potuto vedere A’Isha in braccio alla mamma pochi giorni dopo il parto, avrebbe certamente esclamato: “Fatema, questa tua bambina è bella come un angelo!”.
Bello come un angelo Gabriele, bella come un angelo A’Isha: bellezze destinate a crescere con l’età.
Eccoli finalmente l’uno di fronte all’altra.
A’Isha con i neri occhioni non coperti dal velo, dà un primo sguardo a Gabriele e lo trova così affascinante da pensare: “Chissà quante ragazze, nell’incontrare Gabriele per la prima volta, hanno sognato di poterlo avere come compagno della propria vita!”. E quel sogno ora comincia anche per lei, A’Isha.
Anche per Gabriele il primo sguardo è negli occhi di A’Isha.
Il più grande poeta italiano Dante Alighieri, quando incontrò, forse per la prima volta, la sua innamorata, disse e poi scrisse: “Negli occhi porta la mia donna amore”.
Gabriele, in quel momento, avrebbe potuto dire: “Negli occhi porta A’Isha amore”. Se non lo disse, certamente lo pensò.
Sotto il velo di seta che copriva il viso di A’Isha, Gabriele intravede la sagoma del suo bellissimo volto, ma, per vederlo meglio, si avvicina di qualche passo verso la ragazza.
Nell’osservare le labbra sempre aperte al sorriso, Gabriele ha la sensazione che nei loro cuori si sia accesa una fiammella, che presto si rivela essere, come si usa dire, un colpo di fulmine.
Perché quel colpo di fulmine diventasse un fuoco ardente tale da bruciare tutti gli ostacoli e tenere legati i due cuori per tutta la vita e anche oltre, occorreva che alle loro indiscusse bellezze si accompagnasse una qualche altra cosa.
Quella qualche altra cosa sarà trovata, e ben presto, dentro le mura domestiche della casa di Youssuf.
La prima a parlare è A’Isha, che vuole sapere da Gabriele notizie (d’altra parte già conosciute tramite il padre) dei suoi genitori, dei suoi sei fratelli, degli zii di Lavinio e del brutto incontro con il corsaro Kurdogli. Gli chiede anche se ha nostalgia della sua città, Valeria dei Marsi.
Gabriele, che ha già imparato molt bene la lingua araba, cerca di rispondere a tutte le domande di A’Isha.
Fatema e Youssuf, che, pur tenendosi a debita distanza, hanno assistito al primo incontro della figlia con Gabriele, stanno discutendo tra di loro. “Youssuf, dice Fatema, noi molte volte abbiamo detto che per la nostra cara e unica figlia il marito ideale sarebbe Gabriele. È vero, egli è uno schiavo, ma cerchiamo di mettere in pratica quello che ci ha raccomandato il nostro profeta Maometto a riguardo degli schiavi. ‘Lo schiavo che prega è tuo fratello’ è la raccomandazione più importante, e Gabriele prega, e prega tanto, che qualche sua preghiera di cristiano, a forza di sentirla, tu l’hai imparata a memoria e l’hai fatta conoscere anche a me. Egli perciò non è più uno schiavo, ma un nostro fratello e i fratelli possono vivere nella stessa casa.
Dopo quello che abbiamo visto oggi, Gabriele da domani potrà stare con noi nella nostra stessa casa.”
Youssuf è d’accordo e dice: “Gabriele non è più uno schiavo e da domani sarà un membro della nostra famiglia.”
           

Capitolo 13

GABRIELE E A’ISHA INNAMORATI E DEVOTI DI MARIA

Non essere più considerato uno schiavo è per Gabriele motivo di felicità e anche di orgoglio.
Aumenta, però, il suo lavoro. Oltre ad aiutare Youssuf nella sua attività di falegname, Gabriele toglie a Fatema la grossa fatica di rifornire la casa del fabbisogno giornaliero di acqua.
La fontana dove attingere è piuttosto distante da casa e per Fatema sta diventando un grosso problema.
Provvidenziale, perciò, l’arrivo di Gabriele in casa.
A’Isha passa molto del suo tempo nell’harem domestico, dove Gabriele, naturalmente, non può accedere.
A’Isha sa leggere e scrivere e dedica molto tempo alla lettura del Corano, il testo sacro dell’Islam, che tutti i Musulmani leggono e di cui imparano dei passi a memoria.
Il primo significato della parola ‘Corano’ è quello di ‘lettura ad alta voce’, ma ben presto significò anche ’libro contenente la predicazione’.
La lettura ufficiale del Corano, specialmente nella moschea, è salmodiata, cioè con canti a cori alterni. A margine di certe lettere ci sono dei segni convenzionali per indicare i gesti rituali da compiere.
Gabriele, pur vivendo nella casa di Youssuf, raramente ha l’occasione di vedere A’Isha; la ascolta, però, di frequente quando ella legge il Corano.
Una lettura ad alta voce, distinguendo bene le parole, che Gabriele riesce a capire.
Una parola ricorre di frequente nella lettura di A’Isha: Maryam.
Ma chi è Maryam? Che sia Maria dei Cristiani, la madre di Gesù?
Un dubbio sfiora Gabriele, che ne domanda a Youssuf. “Sì, risponde Youssuf, si tratta della madre di Gesù, la cui storia è ampiamente riportata nel Corano. Io ne so poco, ma A’Isha potrà dare una risposta a tutte le tue domande.”
Prima che Gabriele ascolti da A’Isha la storia di Maria nel Corano, è bene ricordare brevemente quanto di Maria è detto nei quattro Vangeli canonici. In verità le notizie non sono molte.
Esse iniziano con l’annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria. Giuseppe prende Maria in casa come sposa. Visita alla cugina Elisabetta, madre di Giovanni il Battista. Nascita di Gesù a Betlemme. Visita dei pastori e dei re magi. Fuga in Egitto. La vita a Nazaret. Smarrimento di Gesù dodicenne. Nozze di Cana. Presenza con altre donne all’apostolato di Gesù. La morte in croce di suo Figlio e l’affidamento a Giovanni.
Troviamo scritto il nome Maria dieci volte nel Vangelo di Luca, cinque volte nel Vangelo di Matteo, una sola volta nel Vangelo di Marco e nessuna volta in quello di Giovanni.
Ci sono anche alcuni riferimenti a Maria con i nomi comuni di madre, di sposa, di donna.
Origène, il più profondo speculatore e il più grande pensatore del Cristianesimo primitivo, scrisse:
“La Chiesa ha quattro Vangeli, l’eresia ne ha moltissimi.”
Con queste parole Origène disapprova la severità con cui la Chiesa di Roma ha selezionato il grande patrimonio scritturale che tratta dei Vangeli di Cristo.
Gli scritti non accolti dalla Chiesa vanno inizialmente sotto il nome di Vangeli Apocrifi, quasi da tenere “nascosti”, riservati a pochi, per prendere poi il significato di “falsi”, “eretici”.
Tra gli apocrifi del Nuovo Testamento si trovano:
- n° 47 Evangeli;
- n° 30 Atti;
- n° 12 Epistole;
- n° 10 Apocalissi;
- una ventina di scritti vari.
Bisogna riconoscere che molte notizie sull’infanzia di Maria e di Gesù sono a noi note perché riportate nei Vangeli Apocrifi.
Noi non avremmo mai conosciuto i nomi propri dei genitori di Maria (Anna e Gioacchino, che la Chiesa cattolica considera Santi e festeggia ogni anno il 26 luglio) se non ci fossero l’Apocrifo Protovangelo di Giacomo e l’Apocrifo Vangelo dello Pseudomatteo.
Fermiamoci a questo solo esempio, altri ne troveremo più avanti nel racconto di A’Isha. Anche grandi pittori hanno attinto per le loro opere ai Vangeli Apocrifi.
Basti ricordare “L’Annunciazione” di Leonardo da Vinci e “La presentazione al Tempio” di Tiziano .
Nei mosaici di Santa Maria Maggiore di Roma sono raffigurate circostanze tratte da testi apocrifi.
Il patrimonio scritturale apocrifico del Cristianesimo primitivo è destinato ad aumentare a seguito di ritrovamenti di antichi testi, specialmente nel deserto egiziano.
Nel secolo scorso sono stati scoperti due importanti scritti apocrifi: “I Vangeli Gnostici” e il “Vangelo di Giuda”.
I testi gnostici, detti “Testi di Nag Hammadi” (dal luogo egiziano dove furono trovati) furono scoperti nel dicembre 1945, ma pubblicati, in parte, solo nel 1972.
I Vangeli Gnostici sono almeno contemporanei ai Vangeli Canonici e non contengono dati biografici.
Gli Autori, tutti intellettuali, si limitano a riflessioni, a meditazioni su Gesù e la sua opera.
Al  lettore si propone non la conoscenza di un fatto, quasi fosse un racconto da imparare, ma un ragionamento sul fatto stesso.
Le tesi gnostiche furono aspramente combattute dagli Apologisti cristiani (Ireneo vescovo di Lione, Tertulliano, Clemente Alessandrino ed altri), certe sue tendenze, però, sono sopravvissute, attraverso i secoli, fino ai nostri giorni, specialmente in Francia e in Germania.
Altro e più recente ritrovamento nel secolo scorso di scritti apocrifi è il “Vangelo di Giuda”. Fu, come i Vangeli Gnostici, duramente combattuto dagli Apologisti e ne fu proibita la lettura nelle chiese.
Nascosto per 1700 anni dalla sabbia del deserto egiziano, il papiro è tornato alla luce nel 1970. 
È una copia in lingua copta da un originale in lingua greca.
Il papiro, caduto nelle mani di trafficanti di oggetti antichi, è messo in vendita, ma a un prezzo così alto  (si parla di milioni di dollari) che nessuno è disposto a sborsare. Il proprietario lo custodisce per sedici anni nella cassetta di sicurezza di una banca americana. Il tempo e la muffa lo stanno rovinando. Si fa appena in tempo a ripulirlo e a salvarlo. Nel 2000 viene venduto al prezzo di circa 300.000 dollari.
Ci vogliono cinque anni di paziente lavoro per mettere al loro posto i vari pezzi. Ci sono, tuttavia, pezzi mancanti.
Il prof. Rodolphe Kasser ed altri ne hanno fatto la traduzione dal copto in 26 pagine, che noi possiamo leggere dal 2006.
Nell’ultimo rigo dell’ultima pagina è scritto: “Vangelo di Giuda”. Inutile dire che in questo apocrifo gnostico vangelo di Giuda è contenuta una rilettura del tradimento dell’apostolo più odiato.
Ecco finalmente il giorno in cui A’Isha dovrà far conoscere a Gabriele le testimonianze nel Corano su Maria, la madre di Gesù.
Gabriele non aveva mai letto il Corano, ma questa volta si prepara all’incontro con A’Isha dopo aver dato una veloce ma intensa lettura al testo sacro dei Musulmani.
Durante la lettura Gabriele si rende conto, e con piacere, che effettivamente nel Corano molte volte è citato il nome di Maria, la madre di Gesù. Egli ricorda, con nostalgia, le preghiere con il nome di Maria che gli aveva insegnato mamma Gertrunda e che recitavano insieme, sia in casa la sera, che dentro la Cattedrale di Santa Sabina, inginocchiati presso la tomba di San Berardo.
Quelle preghiere non le ha mai dimenticate e le recita ogni giorno. Gli piace recitarle in lingua latina e non nella nostra, pur bella, lingua volgare.
A’Isha e Gabriele sono l’una di fronte all’altro: due cuori innamorati e devoti di Maria.

 

Capitolo 14

MARIA NEL CORANO

È A’Isha a prendere per prima la parola: “Gabriele, tra i Cristiani sono molto pochi quelli che hanno letto qualche pagina del Corano e conosciuto la storia di Maria, la madre di Gesù, in esso ampiamente illustrata.
Anche tu, sentendo nella mia lettura del Corano ripetere spesso la parola Maryam, hai sentito il bisogno di domandare a mio padre di quale Maria si trattasse.
Ora sappiamo che si tratta della Vergine Maria, della quale ambedue siamo devotamente innamorati.
I riferimenti del Corano a Maria sono di alto tenore. Maria viene citata quasi una trentina di volte, a conferma anche della verità di fede, cioè che Gesù non venne generato con un atto umano, ma che fu concepito come Verbo di Dio nel seno della vergine Maria per opera dello Spirito Santo e, inoltre, che Maria, anche dopo il parto, rimase vergine.
Nel Corano non sono mai citati i nomi propri di donne, con una sola, unica eccezione: il nome di Maria, la madre di Gesù.
Anche nei libri della Sunna, raccolta di detti del Profeta, Maria gode della medesima stima.
In un detto ritenuto autentico Maometto dice: “Signora delle donne del mondo è Maria.”. Non c’è donna al mondo al di sopra di Maria.
Interviene Gabriele: “A’Isha, non so come esprimerti la mia riconoscenza e la mia gioia per quanto mi stai dicendo della madre di Gesù, la Vergine Maria, che mia madre Gertrunda mi ha insegnato ad amare da quando ero bambino.
Crescendo in età avrei voluto conoscere di Lei tante altre notizie, specialmente della sua infanzia e della sua vita con Gesù ragazzo. Ora questo compito è affidato a te e sono sicuro che tu saprai sempre rispondere alle mie pur giuste domande.”
Prima che A’Isha riprenda a parlare, lo scrivente crede necessarie alcune notizie per chi conosce poco o non conosce affatto il Corano.
Del significato della parola Corano abbiamo già detto.
- Il Corano è diviso in 114 capitoli, detti “Sure”. Ogni Sura è divisa in versetti. La prima Sura, di sette versetti, è detta “Sura aprente” e dai commentatori è paragonata al “Pater Noster” dei Cristiani. Le Sure sono disposte gradualmente solo in base al numero dei versetti, che vanno dai 286 della seconda ai tre, quattro, cinque versetti delle ultime dieci. La numero 114, ultima, è di soli sei versetti.
- La parola Sunna significava all’origine “costume”, “modo di vivere”. Con il trionfo dell’autorità di Maometto, Sunna vuol dire “rispecchiare il modo di comportarsi del Profeta”, cioè regola di condotta ispirata a quanto Maometto aveva fatto, detto o semplicemente approvato. L’80% di Musulmani dalla parola Sunna hanno preso il nome di Sunniti.
- Sciiti sono detti, invece, il 15% dei Musulmani. Sciita da Shia, che vuol dire “partito”. Gli Sciiti sono quelli del partito di Alì, marito di Fatima, figlia prediletta di Maometto. Gli Sciiti riconoscono l’autorità dei discendenti di Alì e Fatima.
- Gli Ebrei, i Cristiani, i Musulmani sono detti monoteisti perché credono nell’esistenza di un solo Dio Creatore di tutto ciò che esiste, l’uomo compreso. Punto di riferimento iniziale delle loro religioni è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Dio unico è indicato con il nome di Javhè dagli Ebrei, di Dio Padre dai Cristiani e di Allah dai Musulmani.
- È numerosa nel Corano la narrazione di fatti che trovano riscontri nella Bibbia e nei Vangeli, specialmente in quelli Apocrifi, che nelle zone periferiche dell’Impero Bizantino erano più conosciuti e diffusi di quelli Canonici.
A’Isha è pronta a riprendere la parola: “Gabriele, tu vorresti avere notizie dell’infanzia di Maria: è possibile accontentarti. Nella Sura III del Corano in otto versetti è citato nove volte il nome di Maria. Sua madre, incinta, consacra a Dio la creatura che porta nel seno e prega il Signore di accettare quel dono.
Nasce una femmina, alla quale viene dato il nome di Maria.
Dice la neo-mamma: “Un maschio sarebbe stata una cosa ben diversa, ma io pongo Maria e la sua discendenza sotto la tua protezione contro Satana il malvagio.”
Allah accetta l’offerta. Maria va a vivere nel Tempio, affidata alle cure del sacerdote Zaccaria, padre di Giovanni. Zaccaria, entrando ogni giorno nel Tempio, nota che accanto a Maria c’è del cibo, portato giornalmente da due angeli per la sua alimentazione.
Secondo quanto scritto nella Sura III e secondo altre notizie  prese dai Vangeli Apocrifi e dalle tradizioni popolari, Maria era una serva del Tempio e discepola di Zaccaria.
Da Zaccaria Ella ereditò il testimone della profezia. Maria fu, dunque, una profetessa.         
Di Maria si parla ancora nel Corano in altre sette Sure (IV- V- XIX- XI- XXIII- XLIII e LXXVI).
La Sura più importante per il numero delle notizie su Maria è la XIX, che porta il nome di Sura di Maria.
Le notizie di questa Sura devono essere conosciute tutte.
1) Si comincia con la promessa di Dio al vecchio Zaccaria e alla sua sterile moglie di un figlio che si chiamerà Giovanni.
Prima del figlio di Zaccaria nessuno mai aveva portato il nome di Giovanni, che poi divenne tanto comune che ancora oggi molti genitori musulmani impongono ai loro figli il nome di Giovanni.
Nella grande Moschea di Damasco, costruita dai Califfi Ommiadi sono conservate reliquie del corpo di Zaccaria e della testa di Giovanni Battista. La Moschea è meta di pellegrinaggi.
2) L’annunciazione a Maria Vergine
Maria si allontana dalla famiglia per recarsi in un luogo in Oriente.
Un velo le nasconde il viso agli occhi degli altri.
È qui che Dio le manda il Suo Spirito, sotto l’aspetto di un uomo perfetto.
Maria, vedendolo, dice: “Mi rifugio presso il Clemente e Misericordioso e tu non puoi toccarmi.”
Il messaggero in risposta: “ Io non sono altro che un inviato del tuo Signore per darti un figlio.”
E Maria: “Come potrò avere un figlio se mai nessun uomo mi ha toccato? Non sono di certo una donna cattiva.”
L’inviato di Dio aggiunge: “A Dio tutto è possibile. È cosa già stabilita.”
Così Maria concepì  il figlio e si ritirò in luogo lontano, con il frutto del suo seno.
3) Nascita di Gesù in solitudine.
Le doglie del parto spingono Maria presso il tronco di una palma da dattero. Stando sola, esclama: “Oh, fossi morta prima, oh, fossi ora una cosa dimenticata!”
E una voce da sotto il tronco della palma: “Maria, non rattristarti. Il tuo Signore ha fatto sgorgare un ruscello ai tuoi piedi e se tu scuoti verso di te il tronco della palma, questa farà cadere presso di te datteri freschi e maturi. Mangiane quanti ne vuoi.”
4) Dopo aver partorito Gesù, Maria, con il bambino in braccio, tornò dai suoi, i quali, vedendola, dissero: “Maria, tu hai fatto una cosa mostruosa. Tuo padre non era un uomo malvagio, né tua madre una peccatrice.”
Maria non risponde direttamente, ma indica il neonato Gesù, come per dire: “Domandatelo a Lui.”
I parenti mormorano tra di loro: “Come faremo a parlare a chi è ancora bambino nella culla?”
Il bambino invece parlò: “Io sono il servo di Dio, il quale mi ha dato il Libro e mi ha fatto Profeta e mi ha benedetto dovunque io sia. . .  e mi ha imposto di onorare quella che mi ha generato.”
Gabriele, per ora fermiamoci qui - prosegue A’Isha - a Dio che impone a Gesù di onorare Maria.
Debbo confessare che è stata la lettura, per la prima volta, di questo versetto 32 della sura XIX a far nascere in me l’amore per Maria. Se tale amore è un obbligo per Gesù, a più forte ragione lo è per me e per tutti gli altri uomini.
Il nostro profeta Maometto ha onorato Maria ritenendola l’unica donna degna di essere citata nel Corano con il suo nome proprio.
Noi avremo tante altre occasioni per riprendere il nostro discorso su Maria e desidero che anche tu me ne parli.”
“A’Isha, dice Gabriele, sono d’accordo: fermiamoci qui, a Dio che impone al neonato Bambino Gesù di onorare Sua Madre.”
In realtà Gabriele aveva anche un altro motivo per interrompere il suo discorso, che, d’altra parte, durava da un pezzo.
Quell’ ”avremo tante altre occasioni” detto da A’Isha voleva significare che essa in cuor suo aveva già deciso che l’uomo della sua vita era Gabriele. Significava anche che l’iniziale colpo di fulmine era ormai diventato, nel cuore dei due, l’ardente fuoco capace di bruciare tutti gli ostacoli per arrivare al più presto al matrimonio.
Sarà questo l’argomento dei loro successivi incontri.
In realtà di ostacoli ce ne era uno solo, molto serio e di non semplice e facile soluzione.
Le donne musulmane, e quindi anche A’Isha, possono sposare solo uomini musulmani e Gabriele musulmano non era.


 

Capitolo 15

UNA FELICITÀ INTERROTTA

Siamo nell’anno 1540. Ma a questo punto si apre un secondo buco nero, di circa 20 anni, per le notizie sui due innamorati.
Si ritrovano le prime notizie su Gabriele nell’anno 1560, in occasione della morte di Youssuf.
Ma che cosa era successo durante i 20 anni precedenti? Era possibile recuperare qualche notizia della vita di Gabriele?
Non molte, ma le più importanti sì.
-  Nel 1541 A’Isha e Gabriele si sposano.
-  Questo significa che da qualche tempo prima Gabriele si era convertito all’Islam, era diventato un cristiano di Allah.
-  Un matrimonio felice il loro, ma senza la gioia di avere figli.
-  Gabriele buon cristiano si comporta anche da buon musulmano, specialmente nel rispetto delle leggi e delle preghiere. Non dimenticava mai, però, di recitare le preghiere insegnategli da mamma Gertrunda..Anche questo significa onorare la propria madre: non dimenticare mai quello che essa ci ha insegnato sin da bambini.
-  Nel 1557 muore A’Isha. Aveva solo 50 anni.
Una felicità distrutta e un dolore che durerà, per Gabriele, per tutto il resto della sua vita.
Quando tra i coniugi c’è stato sempre amore intenso, la morte di uno di essi provocherà nell’altro un dolore destinato a non attenuarsi mai.
Anche Youssuf e Fatema provarono il più grande dolore della loro vita per la perdita dell’unica figlia.
Youssuf resisterà a quell’incancellabile dolore solo per tre anni. E nel 1560 egli muore.
Dopo la morte di A’Isha sorgono per Gabriele alcuni problemi.
Il dolore di Youssuf e Fatema gli ricorda quello dei suoi genitori dopo la sua cattura da parte del corsaro Kurdogli. Se ci fosse stato almeno un filo di speranza della loro sopravvivenza, sarebbe corso subito in Italia per riabbracciarli.
Quale speranza poteva esserci dopo 44 anni? Neppure se Gertruda e Matteo fossero stati in vita fino a 100 anni, la loro morte sarebbe comunque avvenuta già da tempo. Lo stesso discorso valeva per gli zii Berardo e Ntinia.
E poi come lasciare soli quei due che avevano messo al mondo l’amore della sua vita?
Youssuf e Fatema, ormai anziani e di salute cagionevole, chiusi nel loro dolore, non uscivano neppure di casa.
Era già da qualche anno che nel laboratorio di falegnameria lavorava solo Gabriele.
Nel 1560, come abbiamo annotato, Youssuf muore e Fatema rimane sola.
Fatema, è vero, non aveva parenti che potessero accudirla, ma sola non sarà mai. Gabriele le sarà sempre vicino e non le farà mancare nulla.
Gabriele vende la falegnameria per poter stare più tempo insieme a Fatema e avere più disponibilità di mezzi in caso di bisogno.
Fatema vuole sapere da Gabriele notizie della sua vita insieme ad A’Isha.
“Ad A’Isha, dice Gabriele, piaceva molto parlare di argomenti religiosi. Io non sempre riuscivo a capire quello che lei diceva.
Faceva presente, per esempio, che tra i Musulmani c’erano i Sufi, da alcuni ritenuti dei santi, da altri degli eretici. Diceva anche che c’era stata anche una donna sufi, della quale A’Isha aveva imparato una bella preghiera, che anch’io ho imparato.”

 

 

Capitolo 16

I SUFI

Se Gabriele non capiva sempre quello che diceva A’isha, è da presumersi che la povera Fatema non capisse nulla di quello che suo genero le stava raccontando.
E per capirlo anche noi, oggi, c’è bisogno di un piccolo aiuto: piccolo perché per dire molto dei Sufi non basta un intero volume.
I Sufi sono i mistici musulmani e hanno quel nome perché essi, tra l’altro, indossano abiti di lana e in arabo lana si dice ‘suf’. La mistica, detta appunto Sufismo, è un aspetto interessantissimo della religione e della cultura islamica.
I mistici musulmani amano chiamarsi “Ahi-al Hagg”, che significa “Seguace del Reale” e i Sufi, quando dicono “il Reale”, alludono sempre a Dio: quindi essi sono “Seguaci di Dio”.
Sappiamo che nella dottrina del Corano esiste una incolmabile distanza tra l’umano e il divino, tra l’uomo e Dio.
Desiderio dei Sufi è quello di annullare o, almeno, ridurre quella distanza.
D’altra parte, da un punto di vista etimologico, la parola ‘mistico’ (dal greco mustes) significa “mescolato”, “amalgamato”. La creatura tende a fondersi con l’Ente Divino, oggetto del suo desiderio.
La donna sufi di cui A’Isha parlava a Gabriele era Rabi’ah al-Adaviyya (714-801). Essa fu una grandissima e famosissima mistica. Era stata una cortigiana, una suonatrice di flauto, una schiava.  Liberata, si dette alla preghiera e alla formazione di seguaci. È passata alla storia come la Maria Maddalena dell’Islam.
Come gli altri Sufi anch’essa voleva colmare la distanza tra l’umano e il divino. Un giorno la si vide correre per le vie di Gerusalemme con una fiaccola accesa in una mano e  con una brocca d’acqua nell’altra.
A chi le chiedeva: “Dove vai, Rabi’ah, così di fretta?” rispondeva: ”Vado ad appiccare il fuoco al Paradiso e a inondare d’acqua l’Inferno, per togliere dagli occhi questi due veli che impediscono di cercare solo Dio.”
E quando pregava, diceva: “Signore, se Ti prego per paura dell’Inferno, fa’ dell’Inferno il mio domicilio, se Ti prego per la speranza del Paradiso, tienimi fuori dal Paradiso; ma se Ti onoro e Ti prego per l’amore di Te stesso, allora non privarmi della visione della tua Eterna Bellezza.”
Gabriele era molto ammirato dai vicini di casa per l’affetto e per le cure che prestava a Fatema.
Nel 1565, però, cinque anni dopo la morte di Youssuf e otto anni dopo la scomparsa di A’Isha, muore anche Fatema.
Questa volta a rimanere solo è lui, Gabriele.


 

Capitolo 17

GABRIELE IN GRECIA

A’Isha aveva ad Algeri un solo cugino, Omar, che da qualche tempo si era trasferito in Grecia. Qui aveva aperto un negozio per l’acquisto e la vendita di tappeti persiani.
Omar invitò Gabriele ad andare a vivere presso di lui; non c’erano lavori pesanti da fare, c’era solo bisogno di un piccolo aiuto nella gestione del negozio.
E poi, per il continuo passare in quel luogo di navi mercantili della Repubblica di San Marco, Gabriele avrebbe avuto la possibilità, volendolo, di tornare in Italia.
Fu forse questa seconda possibilità a far decidere Gabriele per il sì.
Dopo aver venduto la casa e i pochi beni in essa contenuti, nel 1566 Gabriele è in Grecia, nel golfo di Patrasso, in un paesino costiero nella zona di Missolungi.
Qui la vita è tutta diversa, non solo per la bellezza del paesaggio e per il dolce clima marino, ma soprattutto per la vita serena che gli abitanti vi conducevano.
Ad Algeri era triste incontrare quelle brutte facce di cosari e di pirati che accompagnavano migliaia e migliaia di schiavi cristiani pronti per essere venduti negli appositi mercati.
In Grecia Gabriele è accolto come persona di famiglia in casa di Omar.
Omar gli fa conoscere il sacerdote ortodosso del villaggio, pope Dimitri.
Tra il nuovo arrivato e il pope nasce una sincera amicizia e a Dimitri Gabriele può confidare i suoi tormenti religiosi.
Il problema che Gabriele vuole risolvere è questo: rimanere musulmano, in ricordo di A’Isha, o tornare da cristiano a quanto gli aveva insegnato mamma Gertrunda?
Come dimenticare i sacri insegnamenti di una mamma?
I discorsi tra Gabriele e Dimitri sull’argomento sono tanti e abbastanza lunghi. Alla fine, però, una soluzione viene trovata e in Gabriele torna la pace nella sua anima.
In quanto all’ipotesi di ritornare in Italia con un mercantile veneziano, essa è subito scartata da Gabriele. Egli non capisce la lingua che parlano i marinai veneziani e poi Roma gli sembra più lontana da Venezia che da Patrasso.

 

Capitolo 18

LA BATTAGLIA DI LEPANTO

Erano passati più di quattro anni da quando Gabriele era ospite di Omar in Grecia. Negli ultimi mesi nel golfo di Patrasso era un via vai di navi ottomane che, attraverso lo stretto di Indirio, entravano nel golfo di Corinto e andavano a prendere posizione di battaglia all’estremità del golfo allora ancora chiuso. Un giorno si videro arrivare sei navi di grandezza mai vista.
Erano le cosiddette galeazze, orgoglio della flotta veneziana, vere e proprie fortezze natanti. Portavano da 32 a 46 banchi rematori e avevano una potenza di fuoco superiore a tutte le altre navi: infatti potevano montare fino a 36 grossi cannoni, più altri di minori dimensioni, e per la prima volta potevano essere effettuati tiri di artiglieria dai lati.
Le galeazze, entrando nel golfo di Corinto, presero posizione davanti alla flotta ottomana, per impedire che le navi dei Musulmani irrompessero, per tutta la larghezza del golfo, contro le navi dei Cristiani che stavano prendendo posizione dietro le galeazze.
Al comando della flotta cristiana c’erano: al centro il giovane don Giovanni d’Austria, fratellastro dell’imperatore Carlo V, comandante supremo; all’ala sinistra il veneziano Sebastiano Venier; all’ala destra il comandante della flotta pontificia Marcantonio Colonna; nell’estrema destra le navi spagnole comandate dal Doria.
Anche la flotta musulmana era sotto il comando di tre ammiragli, tra cui il corsaro calabrese, convertito all’Islam, Ucciali.
Le forze in campo per il numero dei mezzi più o meno si equivalevano nei due schieramenti.
Lo scontro fu molto duro e lungo.
Se osserviamo le perdite subite dai due contendenti, è chiara la grande vittoria riportata dalle forze cristiane.
Perdite ottomane:
-  Delle 220 navi dei musulmani ne furono affondate o catturate 180. Riuscì a salvarne 40 Ucciali, travolgendo la resistenza del Doria.
-  Marinai morti: dai 25.000 ai 30.000.
-  Prigionieri presi: 10.000.
-  Schiavi cristiani liberati (in genere addetti ai remi): 14000, di cui 10000 italiani. 
Perdite dei cristiani:
-  Navi perse: 14 galee, di cui 10 veneziane, una maltese, una pontificia, una genovese e una piemontese.
-  Marinai morti: 7.000, di cui 4800 veneziani.
-  Feriti: 5.000.
Come si vede il prezzo più alto per questo scontro, passato alla storia come “Battaglia di Lepanto”, la pagarono i Veneziani. E non solo questo.
Lo scontro era stato causato dal fatto che i Musulmani stavano togliendo Cipro ai Veneziani, ne avevano scorticato vivo il governatore Marcantonio Bragadin, avevano massacrato 20000 cristiani, avevano trasformato le chiese in moschee.
Dopo la disfatta di Lepanto, Cipro rimase in mano ai Turchi. E non è tutto.
Per fare la pace tra due che si sono combattuti, di solito è il vincente a imporre oneri al vinto. Venezia, per ottenere la pace con gli Ottomani, ebbe bisogno della mediazione della Francia (amica dei Turchi) e dovette pagare una grossa somma al nemico vinto.
Era vitale per Venezia poter riprendere il commercio in Oriente.
D’altra parte, dopo la vittoria di Lepanto, Venezia fu lasciata sola.
Agli Spagnoli, in quel momento, interessava tentare di riprendersi Tunisi occupata da Ucciali con le sue 40 navi.

 

Capitolo 19

GABRIELE TORNA IN ITALIA

Torniamo a Gabriele.
Il pope ortodosso Dimitri conosceva il desiderio di Gabriele di tornare al suo mai dimenticato paese natio.
C’era anche il problema del ritorno alla sua antica fede.
Il pope Dimitri conosceva quasi tutti i cappellani della flotta pontificia. A uno di essi affidò Gabriele con i suoi problemi religiosi da risolvere.
Il cappellano accettò l’incarico, fece salire Gabriele su una nave pontificia in partenza per l’Italia e diretta a Civitavecchia.
Prima di partire Gabriele volle salutare e ringraziare Omar per l’ospitalità presso la sua famiglia.
Omar non era forse il parente più stretto della sua A’Isha?
Quando era arrivato schiavo in Africa Gabriele non aveva in tasca neppure un ducato.
Ora che partiva dalla Grecia come uomo libero, aveva solo pochi spiccioli che lasciò ad Omar.
Voleva tornare in Italia povero e bisognoso di tutto come lo era quando era stato catturato dai corsari.
Durante la lenta e lunga traversata Gabriele ebbe modo di raccontare al Cappellano tutte le vicende della sua vita, cominciando da quando, ancora bambino, la mamma Gertrunda lo accompagnava alle funzioni religiose nella Cattedrale di Santa Sabina.
Quanta nostalgia per quella chiesa, forse la prima Cattedrale costruita in Abruzzo!
Gabriele non vedeva l’ora di potervi entrare di nuovo.
Il Cappellano volle sapere tutto del suo matrimonio con A’Isha.
“A’Isha aveva, precisò Gabriele, tre cose che mi attiravano fortemente verso di lei: l’ardente fede nell’esistenza di un Dio unico, la devozione verso Maria, la madre di Gesù, e, non ultimo tra gli altri motivi, una bellezza tale da essere ritenuta la donna più affascinante del mondo magrebino.
E poi A’Isha era una donna di preghiera: pregava sempre, pregava molto.”
Il Cappellano trovò molto commovente la storia di Gabriele e disse: “Gabriele, quando saremo a Roma, dovrai sottoporti all’esame e al giudizio del Tribunale dell’Inquisizione.
Ho potuto notare che per diventare musulmano la procedura è semplice e breve. Il convertito musulmano che vuole tornare alla sua antica Fede, deve subire le modalità, le lungaggini e anche la severità dell’Inquisizione. Ora io so tutto della tua vita e quando, penso fra molto tempo, sarai chiamato in giudizio, io sarò il tuo testimone. Non temere. Continua, però, la tua vita di preghiere.”
Ecco finalmente l’arrivo a Civitavecchia, lo sbarco e subito dopo il viaggio verso Roma.
A Roma il Cappellano trovò per Gabriele una sistemazione in un convento di frati Cappuccini.
Il suo lavoro: fare il portinaio, controllare chi entrava e chi usciva dal convento, suonare la campanella in determinate ore della giornata, per richiamare i frati ai loro doveri, tenere sempre pulito l’ingresso del convento.
Compenso pattuito: vitto, alloggio e alcuni spiccioli alla fine di ogni mese.
La vita di Gabriele nel convento scorreva tranquilla e, quando il lavoro glielo permetteva, partecipava anche alle funzioni religiose dei frati. Solo aspettava con ansia che tutta la sua vicenda avesse termine per poter tornare alla sua Valeria.
Erano passati più di due anni dall’arrivo di Gabriele a Roma e ancora non c’era stata per lui alcuna convocazione dal Tribunale dell’Inquisizione.
Dopo la battaglia di Lepanto forse erano numerosi i convertiti all’Islam che chiedevano di poter riabbracciare la loro antica fede cristiana.
Nel libro, messo in Bibliografia, di B. a L. Bennassar sono citati molti nomi di rinnegati e di aspiranti al ritorno alla fede cristiana.
Di Gabriele non ho trovato notizie.

 

Capitolo 20

IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE

Un certo giorno, non sappiamo quando, Gabriele fu convocato in giudizio dal Tribunale dell’Inquisizione.
Il giudizio si svolgeva per tutti in tre udienze regolamentari.
Nella prima i giudici chiedevano al giudicando una precisa trama della propria vita, quindi iniziavano le domande degli stessi.
È da precisare che al giudizio di Gabriele era presente, quale testimone a discarico, il Cappellano della Flotta Pontificia.
I frati del convento dei Cappuccini avevano trasmesso al Tribunale una relazione sulla vita di Gabriele in convento.
Pur  non avendo la documentazione ufficiale, possiamo noi conoscere qualche domanda particolare rivolta dai giudici a Gabriele e le sue risposte?
Penso di sì, tenendo conto di quanto scritto in casi analoghi.
• Sulla trama della vita: Gabriele, oltre a quanto detto al Cappellano, fece conoscere ai giudici che era stato liberato dalla schiavitù dal proprio padrone Youssuf, uomo che pregava molto.
• Domanda di un giudice: “Leggendo quale formula e scritta in quale lingua ti sei convertito all’Islam? Ne capivi il significato?
• Risposta:”Ho letto la seguente formula in arabo: ‘LA ILAHA ILLA ALLAH. MOHAMMED REZUL ALLAH’ che in italiano significa ‘Non c’è altro Dio che Allah. Maometto è il Profeta di Allah’. Conoscevo perfettamente il significato delle due lingue:”
• Seconda udienza: altre domande, discussioni.
• Terza udienza: la sentenza, che non poteva non essere favorevole a Gabriele, uomo di grande fede.
Gabriele, tornato al Cristianesimo, che d’altra parte non aveva mai rinnegato, e di cui non aveva mai trascurato le preghiere, che spesso recitava con la sua A’Isha, qualche penitenza dovette pur farla, se è vero che, nonostante il grande desiderio di tornare a Valeria, fu costretto a rimanere a Roma a servire nel convento dei Cappuccini fino al mese di ottobre del 1579.
Né, dopo la morte della moglie, aveva smesso di recitare le preghiere del Corano e dei Sufi che tanto piacevano ad A’Isha.

 

Capitolo 21

IN VIAGGIO VERSO LA TERRA NATIA

Ora Gabriele ha 79 anni, ma è in grado, con la forza della volontà, di affrontare il viaggio, non certo facile, per rivedere la casa dove era nato e morire nel paese che gli aveva dato i natali.
Gabriele aveva già preparato tutto per il viaggio di ritorno.
I buoni frati cappuccini vollero assicurarsi che Gabriele avesse denaro sufficiente per pagare i mezzi di trasporto, il mangiare e l’alloggio per la notte.
Gli viene rilasciato dal padre guardiano un documento che gli permettesse di essere ospitato gratuitamente nei vari conventi nei luoghi delle sue soste.
E così, verso la fine di ottobre del 1579 Gabriele parte da Roma.
Il viaggio andava fatto a piccole tappe, per cui sarebbe durato molti giorni.
Lasciamo Gabriele solo mentre attraversa paesi e paesetti del Lazio, noi lo rincontreremo quando entrerà in Abruzzo.
Approfittiamo di questo non breve lasso di tempo per tornare indietro di anni, quando il discorso tra A’Isha e Gabriele non era certamente solo su Maria, ma anche su Gesù.
Finora di Gesù conosciamo solo quello che, bambino di pochi giorni, disse agli increduli parenti di Maria e rivelò il suo Essere: “In verità io sono il Servo di Dio, il quale mi ha dato il Libro e mi ha fatto Profeta…..” (sura XIX, 31-33).
Nel Corano si parla tanto di Gesù, e sempre con la massima lode, in una quindicina di sure e per una trentina di volte. Ne accenniamo a qualcuna.
Nella sura II v. 87 è detto che Gesù ‘possiede’ lo Spirito Santo.
Nella sura V vv. 112-115 Gesù celebra l’Ultima Cena.
Un sosia sostituisce Gesù sulla croce (sura IV vv. 157-158). Questo sostenevano anche i Doceti, eretici cristiani: “Presso Allah Gesù è come Adamo che Egli creò con l’argilla; poi gli disse: ‘Sii’ ed Egli fu.”
Sono stati, però, i Sufi a tener vivo nei secoli il ricordo di Gesù.
Il maestro sufi contemporaneo Javad Nurbakhsh nella quarta pagina di copertina del suo libro “Gesù secondo i Sufi” scrive: “I Sufi, senza pregiudizi e preconcetti, scevri da fanatismi ed estremismi religiosi, hanno tenuto vivo nel corso dei secoli il ricordo di Gesù, modello di virtù, manifestazione divina perfetta e maestro del cammino spirituale.”
Il poeta e mistico persiano, il sufi Hafez (m.792), ha scritto l’esaltazione, forse la più grande, dell’opera di Gesù:
“Se lo Spirito Santo ci dovesse accordare
La Sua grazia ancora una volta
Anche altri eseguirebbero
Tutte le opere di Cristo.”

(J. Nurbakhsh, opera citata, pag. 2)
Nessuno può aggiungere altro a quello che ha fatto Gesù.      

  

Capitolo 22

L’ARRIVO IN ABRUZZO

Gabriele è arrivato in Abruzzo. Un carrettiere, data l’ora tarda, lo sta portando a casa sua, nel paesino di Pereto, per rifocillarlo e ospitarlo.
A causa del maltempo è sconsigliabile per Gabriele proseguire il viaggio e il carrettiere è disponibile ad accompagnarlo su in montagna in località Monte Serra Secca, in un convento meglio noto come Santuario della Madonna dei Bisognosi, dove potrà trovare accoglienza anche per molto tempo.
Questo santuario oggi è antico di 14 secoli e la sua lunga storia la troviamo raccontata in tanti opuscoli.
I Sambenedettesi, pronipoti degli abitanti dell’antica Valeria, hanno un motivo in più per conoscere un importante particolare di quella storia, che qui vogliamo raccontare brevemente, lasciando Gabriele ancora per un poco in casa del carrettiere di Pereto.
Siamo ai primi anni del secolo VII e nella Spagna dominata dai Visigoti convertiti alla civiltà di Roma e alla religione cristiana, in località tra la città di Siviglia e l’Oceano Atlantico, c’è una chiesa con dentro un’icona, una immagine, scolpita in legno di ulivo, della Vergine Maria detta ‘Madonna dei Bisognosi’.
L’immagine sacra è particolarmente venerata da tale Fausto, da Elfustia, sua moglie, e dal loro unico figlio Procopio.
Fausto, già vedovo, avendo smarrito il figlio in un naufragio vicino alle coste italiane, prega la Vergine di fargli ritrovare Procopio.
La Madonna dei Bisognosi gli appare in sogno e gli dice che avrebbe ritrovato il figlio se avesse trasferito in Italia, in Abruzzo, sul monte di Carsoli, la sua immagine, per salvarla dalla distruzione dei Saraceni, che si apprestavano a invadere la Spagna.
Per la storia i Saraceni, convertiti all’Islam, iniziarono la conquista della Spagna un secolo dopo, nel 711 
Fausto, aiutato da un ebreo convertito al cristianesimo e da altre persone, fa sistemare la statua della Madonna dentro un’apposita cassa. Tutti insieme salpano alla volta dell’Italia.
Arrivati a Francavilla, in Abruzzo, dove era avvenuto il naufragio, collocano la cassa su una mula, che, non guidata da nessuno, inizia il viaggio verso il monte di Carsoli.
Fausto e i compagni seguono dietro.
Arrivati nei pressi di Carsoli (oggi diremmo di Pereto), la mula inizia a salire sulla montagna e si ferma in località detta Monte Serra Secca, un territorio arido che subito si copre di ricca vegetazione.
La mula, una volta liberata della cassa con l’immagine sacra, si accascia a terra e muore. Segno che il viaggio era finito.
Intanto riappare Procopio. Gli Spagnoli, aiutati anche dagli abitanti del luogo, costruiscono una piccola chiesa, per collocarvi l’icona della Madonna dei Bisognosi.
Fausto e i suoi compagni decidono di passare qui il resto della loro vita.
La notizia dei prodigi operati dalla Vergine Maria arriva fino a Roma, al papa Bonifacio IV, gravemente malato. Egli si raccomanda alla Madonna dei Bisognosi e guarisce all’istante.
Il giorno 11 giugno 610 papa Bonifacio IV si reca sul Monte Serra Secca per ringraziare la Madonna. Qui il papa di Valeria dei Marsi (oggi San Benedetto dei Marsi) consacra la chiesetta, lascia dei fondi per ampliare il luogo sacro e dona un crocifisso scolpito in legno.
Quel crocifisso, dopo 14 secoli, è ancora lì, dentro una nicchia al lato destro dell’altare della grande chiesa del Santuario odierno.
L’immagine di quel crocifisso è riportata in Appendice.
Abbiamo raccontato solo la nascita del Santuario della Madonna dei Bisognosi, perché vi ha avuto parte il nostro papa San Bonifacio IV Valeriense.
Torniamo ad occuparci di un altro Valeriense: Gabriele.
La proposta fattagli dal carrettiere di accompagnarlo al Santuario è da lui accettata.
C’erano tre buoni motivi perché nel santuario della Madonna dei Bisognosi egli ricevesse accoglienza:
• i frati di San Francesco devono sempre aiutare chi ha bisogno;
• il documento rilasciato dal padre guardiano dei Cappuccini di Roma gli apriva le porte di tutti i conventi francescani;
• Gabriele era cittadino di Valeria, come lo era stato a suo tempo il papa San Bonifacio IV.
Arrivati al santuario, il carrettiere presenta Gabriele all'abate Giorgio Maccafani.
Questi, conosciuta la storia di Gabriele, gli dice:
”Sarai nostro ospite per qualche mese. Dai paesi del versante marsicano dei monti Simbruini vengono qui a pregare la Madonna dei Bisognosi molte persone.
Ora i pellegrinaggi sono interrotti per il clima invernale alle porte.
Questi, però, insieme alle rondini, torneranno.
Te lo diremo noi quando potrai tornare alla tua Valeria. Ti affideremo a Marsicani che noi conosciamo e che ti daranno ogni aiuto.
E un grande aiuto te lo darà il tuo compaesano Papa San Bonifacio IV. Chissà che non piaccia anche a lui rivedere il luogo dove nacque mille anni fa e recitare una preghiera per la sua città insieme a san Berardo dentro la Cattedrale di Santa Sabina.”


   
 

Capitolo 23

IL TRISTE RITORNO A VALERIA

E tornarono le rondini.
E tornarono pure i pellegrini a pregare la Madonna dei Bisognosi.
Con i pellegrini di Capistrello arrivò anche Matteo, vecchia conoscenza dell’abate Maccafani, al quale doveva essere affidato Gabriele nel suo viaggio di ritorno.
Il percorso, che Matteo conosceva molto bene, era questo: Santuario della Madonna dei Bisognosi, Rocca di Botte, Camerata Nuova, Campo Rotondo, Cappadocia, Pagliara, Castellafiume, Capistrello.
Il viaggio era piuttosto lungo. I più giovani lo effettuavano in una giornata. Gli anziani, come era Matteo e in questo viaggio anche Gabriele, facevano ogni tanto brevi soste e riposavano  una nottata in uno dei paesi che attraversavano.
Ecco finalmente l’arrivo a Capistrello. Matteo ospita Gabriele per due giorni, per farlo ben riposare prima di affrontare l’ultima tappa del ritorno al paese natio.
È il 20 marzo 1580. È una splendida giornata di sole.
Davanti alla casa c’è già pronto uno dei figli di Matteo, che dovrà accompagnare Gabriele, a cavallo di un somarello, fino al lago Fucino.
Arrivati al valico del Monte Salviano, Gabriele scende a terra e rivede con grande emozione il ‘Paradiso Terrestre’ della sua terra natia.
La verde cornice dei monti, gli alberi di mandorle e di mele già fioriti, le tranquille acque del Lago Fucino, i raggi del sole che si riflettono qua e là su di esse, in una fantasia di colori, lo commuovono.
Quanto sarebbe stato più bello se avesse avuto accanto a sé l’amata A’Isha!
Si riprende il cammino e si arriva in prossimità del Lago Fucino, vicino ad Avezzano, allora un piccolo villaggio.
Qui i monaci benedettini di Santa Maria della Vittoria di Scurcola, per festeggiare una ricorrenza, stanno addobbando le loro due barche da pesca e i dodici piccoli battelli per un giro intorno al lago. Una ottima occasione per Gabriele di essere preso a bordo fino a Valeria.
Le quattordici imbarcazioni prendono il largo.
A Luco, a Trasacco e a Ortucchio la gente accorre lungo la riva del lago per godere lo spettacolo che i buoni monaci effettuano tre volte l’anno.
Ecco l’arrivo a Valeria.
Il cuore di Gabriele batte più forte, ma subito la prima delusione: non c’è anima viva ad aspettare il passaggio delle imbarcazioni.
Perché?
Una piccola sosta per permettere a Gabriele di scendere a terra.
Entrato in città una seconda grande delusione.
Orgoglio di Valeria per i monumenti che la abbellivano erano due tombe di epoca romana, oggi ancora esistenti e conosciute come ‘i Morroni’. Alte come due torri, l’una accanto all’altra, erano ricoperte di lastre di marmo variegato: uno spettacolo quando sfavillavano ai raggi del sole.
Ora quelle lastre di marmo non ci sono più, trafugate da qualche ladro che forse non era lontano da Valeria.
Non distante dalle tombe romane c’è la casa dove Gabriele era nato. La trova disabitata, vuota, con le mura ammuffite dalle acque delle periodiche escrescenze del lago.
Non si vede anima viva.
Gabriele avrebbe voluto recarsi, per dire una preghiera, presso la tomba dei suoi adorati e mai dimenticati genitori Gertrunda e Matteo. Non trova, però, alcuna persona che gli possa indicare dove essi potevano essere stati seppelliti e se ne rattrista.
Ad un tratto gli sembra che qualche rumore provenga dalla zona del Molino di Civita.
Vi ci si reca e qui in effetti si sentono rumori e ci sono segni di vita. Sono, però, di gente dei paesi vicini che qui vengono a macinare.
Gabriele è in brutte condizioni di forze e di salute. Viene rifocillato da quella brava gente e conosce la verità: Valeria è una città semidistrutta, una città morta.
Il vescovo Matteo Colli e quasi tutta la popolazione si sono trasferiti in luoghi più sicuri.
“Addio, Paradiso Terrestre della mia terra natia! Debbo accontentarmi soltanto di averti rivisto dopo 64 anni.”
Questo pensa Gabriele, ma un desiderio gli rimane ancora: rivedere la Cattedrale di Santa Sabina.
Ricorda quando mamma Gertrunda lo accompagnava ancora bambino a pregare presso la tomba di San Berardo.
Vuole entrare ancora una volta in quell’antichissima e stupenda Cattedrale.
Gabriele sente mancargli le forze.
Aiutato più dalla forza della volontà che da quella dei piedi riesce a trascinarsi davanti a Santa Sabina. “Quant’è bella la chiesa della mia infanzia! Grazie, Signore, di avermela fatta rivedere ancora una volta…”
Ma cosa è successo? Tutt’intorno c’è un silenzio di morte. Nel campanile non ci sono più le campane, il portale della chiesa è chiuso.
Dalla Storia sappiamo che rimarrà chiuso per sette anni ancora.
Gabriele non ha più forze e si accascia su un gradino del portale. E mentre la luce di questo mondo sta scomparendo per sempre dai suoi occhi, ecco un fascio luminoso con scritta la preghiera della mistica Rabi’ah, la Maria Maddalena dell’Islam, preghiera che tanto piaceva ad A’Isha e Gabriele quando la recitavano insieme: “(Signore,) … se io Ti ho pregato per il grande amore che Tu porti a tutti noi, non privarmi della visione della Tua Eterna Bellezza, o Dio.”

 

         

APPENDICE

Immagine 1: Il lago del Fucino intorno alla metà del 1800.

 

 

 

Immagine 2: Il castello di Celano con il lago del Fucino sullo sfondo. Stampa del XIX secolo.

 

 

 

Immagine 3: La "resurrezione" del lago del Fucino (marzo 2011).

 

 

 

Immagine 4: Michelangelo (chiesa di San Lorenzo in Firenze): tomba di Giuliano dei Medici, duca di Nemours, con le statue de “La Notte” (a sin.) e “Il Giorno”

 

 

 

Immagine 5: Il porto di Algeri con la Casbah sullo sfondo in  una stampa del XVI secolo.

 

 

 

Immagine 6 : Stampa antica riproducente scena della   battaglia di Lepanto.

 

 

 

Immagine 7 : Gian Gabriello Maccafani (1762 – 1785) illustra in uno dei suoi manoscritti il sogno di Papa Bonifacio IV.
Sullo sfondo della scena si vedono rovine di epoca classica: una in particolare ricorda il Pantheon, luogo trasformato dal Pontefice in un tempio cristiano. A lato, sulla cima di un monte, la facciata di una Chiesa, forse il primo tempio della Madonna dei Bisognosi. L’angelo reca tra le mani un’icona della Madonna dei Bisognosi.

 

 

 

Immagine 8: Crocifisso ligneo donato da Papa Bonifacio IV al Santuario di Santa Maria dei Bisognosi.

 

 

 

Immagine 9: I Morroni (San Benedetto dei Marsi - Marruvium - Valeria). Monumento funebre dedicato ai caduti della Guerra Sociale contro Roma (90 a.C.)

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

1. IL CORANO. : traduzione e commento di Alessandro Bausani – Biblioteca Universale Rizzoli
2. IL CORANO. (a cura di Antonio Ravasio) : traduzione di Laura Monti – Rusconi Libri
3. CORANO SENZA SEGRETI. di Gabriela Mandel – Rusconi Libri
4. VANGELI APOCRIFI. (a cura di Angela Cerinotti) – Acquerelli Sellerio
5. L’INFANZA DI MARIA NEL PIÙ ANTICO TESTO CRISTIANO. di Luigi  Moraldi – Oscar Mondadori
6. I VANGELI GNOSTICI.  di Luigi Moraldi – Fabbri Editore
7. I VANGELI GNOSTICI.  di Elaine Pagels – Oscar Mondadori
8. IL VANGELO PERDUTO. IL VANGELO DI GIUDA ISCARIOTA. di Herber Krosney – National Geographic – gruppo editoriale L’Espresso
9. LA TERRAZZA PROIBITA. VITA NELL?HAREM. di Fatema Mernissi (traduzione di Rosa Rita D’Acquaricca) – Giunti Editore
10. L’HAREM E L’OCCIDENTE. di Fatema Mernissi (traduzione di Rosa Rita D’Acquaricca) – Giunti Editore
11. DONNE D’ALGERI NEI LORO APPARTAMENTI. di Assia Djebar (traduzione di Gianfrancesco Turano) – Giunti Editore
12. LONTANO DA MEDINA: LE DONNE AL TEMPO DEL PROFETA. di Assia Djebar (traduzione di Claudia Maria Tresso) – Giunti Editore
13. A VENEZIA NEL ‘500. IL SECOLO DI TIZIANO. di Alvise Zorzi – Fabbri Editori
14. L’ULTIMO CROCIATO. di Louis Wohl – Famiglia Cristiana
15. CRISTIANI DI ALLAH. UN NOIR MEDITERRANEO. di Massimo Parlotto – Edizioni E/O
16. I CRISTIANI DI ALLAH (CONVERTITI ALL’ISLAMISMO NEI SECOLI XVI E XVII). di Bartolomé e Lucile Bennassar – Rizzoli Editore
17. L’ULTIMA CROCIATA. di Arrigo Petacco – Oscar Mondatori
18. I SUFI MISTICI DELL’ISLAM. di Jean Chevalier – Xenia Tascabili
19. SUFISMO E MISTICA ISLAMICA. di R. Nicholson – Libr’Italia
20. GESÙ SECONDO I SUFI. di Jarad Nurbakhsh – Edizioni NUR
21. GESÙ A CHI APPARTIENE? COME LO VEDONO EBREI E MUSULMANI, COME LO CONFESSANO I CRISTIANI. di Josef Imbach – Edizioni Paoline
22. ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI AVEZZANO: STATO DELLA POPOLAZIONE DELLA MARSICA NEI SECOLI XVI, XVII E XVIII.

 

 

 

 

INDICE

PRESENTAZIONE
                                                                                                                               
Capitolo   1  : PARADISI TERRESTRI        
Capitolo   2  : BELLO COME UN ANGELO
Capitolo   3  : GABRIELE E LE SPERANZE DEI GENITORI                             
Capitolo   4  : IL SECOLO DI GABRIELE
Capitolo   5  : IL CINQUECENTO NELLA SERENISSIMA         REPUBBLICA DI VENEZIA
Capitolo   6  : IL CINQUCENTO E “LA NOTTE”  DI MICHELANGELO                                 
Capitolo   7  : LA LENTA MORTE DI VALERIA                                                                                                                                           
Capitolo   8  : ADDIO ALLE SPERANZE DI GERTRUNDA E MATTEO                          
Capitolo   9  : GABRIELE DA VALERIA A LAVINIO                                                        
Capitolo  10 : GABRIELE VITTIMA DELLA PIU’ VERGOGNOSA DELLE VERGOGNE  
Capitolo  11 : GABRIELE SCHIAVO DEI CORSARI MUSULMANI                                   
Capitolo  12 : GABRIELE, UNO SCHIAVO INNAMORATO                                                
Capitolo  13 : GABRIELE E A’ISHA INNAMORATI E DEVOTI DI MARIA                       
Capitolo  14 : MARIA NEL CORANO                                                                                
Capitolo  15 : UNA FELICITÀ INTERROTTA                                                                                            
Capitolo  16 : I SUFI                                                                                                           
Capitolo  17 : GABRIELE IN GRECIA                                                                                                  
Capitolo  18 : LA BATTAGLIA DI LEPANTO                                                                   
Capitolo  19 : GABRIELE TORNA IN ITALIA                                          
Capitolo  20 : IL TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE                                                       
Capitolo  21 : IN VIAGGIO VERSO LA TERRA NATIA
Capitolo  22 : L’ARRIVO IN ABRUZZO                                                                        
Capitolo  23 : IL TRISTE RITORNO A VALERIA

 


APPENDICE 

 

 BIBLIOGRAFIA